La ferita dell’aprile
- Autore: Vincenzo Consolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2013
Uscito nella collana del “Tornasole” ideata da Vittorio Sereni e Nicolò Gallo, viene pubblicato nel 1963 da Einaudi l’affascinante romanzo di Vincenzo Consolo dal titolo La ferita dell’aprile.
Un testo d’esordio, di formazione, il cui incipit anticipa il tema del viaggio, reso da metafore suggestive e che sarà presente nelle sue opere successive:
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti.
Il sentire e i ricordi sono dunque gli ingredienti che connotano il percorso esistenziale dello scrittore che dà la parola a un ragazzino – Scavone di cognome.
L’ironia è garbatamente sottile, la potenza visionaria ha in sé qualcosa di filosofico e il linguaggio, un misto di italiano e di siciliano (anche italianizzato) con le tonalità d’una cantilena, va oltre le scelte stilistiche del tardo neorealismo, accostandolo a Carlo Emilio Gadda. Siamo nell’immediato secondo dopoguerra del Novecento in un paese “grande” della costa settentrionale della Sicilia da cui è visibile il faro di Cefalù e dove le tradizioni sono rituali. Così viene descritto alla fine del capitolo X:
Questo paese è una grata, i vicoli incrociati, quelli piani trasversali e gli altri che scendono dritti fino a mare. E uno che fa un vicolo traverso, ad ogni spigolo di casa si trova in faccia, laggiù, lo specchio d’acqua chiara, un vero azzurro in fondo al vicoletto. Ma verso l’alto c’è lo schermo della terra, le colline verdegrige con gli ulivi e gli agrumeti. Questo paese sembra posato tra le zampe d’un cane accovacciato, chiuso com’è in questo rettangolo collinoso in riva al mare.
La prima immagine è quella della corriera unitamente a Bitto che l’ha preso a “picciottello”. La fanciullezza è trascorsa in chiesa per la “novena” e per fare l’ “incensiere”. Don Sergio, nato nella provincia di Agrigento, è un reduce, un cappellano militare che torna dalla campagna di Russia:
Era pieno di chiacchiere e tabacchiere, sano sano. Russia e Russia. L’avanzata i cannoni i guastatori i lanciafiamme; la ritirata la steppa il freddo la fame.
Insieme ad altri ragazzi, studia in un istituto religioso che è l’orfanotrofio maschile in cui la vita si svolge tra preghiere e grotteschi episodi: per esempio, in occasione della morte del padre di Tano Squillace.
La fanciullezza e l’adolescenza, che segnano il passaggio all’età adulta, sono le tappe fondamentali del ragazzo orfano, assistito dallo zio cui è dedicato il capitoletto IV in cui si parla del loro rapporto:
La prima idea fu quella del barbiere, e mi mandò al salone a far le saponate, poi il sarto, a infilar le aguglie e levar l’imbastiture, scarparo pittore mastro d’ascia, tutte arti leggere, ché si vedeva che non avevo la possanza per taglialegna e carbonaro, manco l’intelligenza del vinaio.
La narrazione non trascura l’amore per il paesaggio, una costante nella scrittura di Consolo, reso in questo brano con similitudini corpose:
Verso le Madonie un nuvolone s’era rotto, scomposto in macchie nere come pecore, e una s’era posta avanti al sole, che così mandava lunghi raggi per tutto il cielo, distanti l’uno dall’altro e consistenti da sembrare d’ottone come quelli dell’ostensorio sull’altare. La campagna brillava ancora verde di muschi ed erba acre […]. L’inverno era già maturo, che si voleva? Era già Natale.
Uno scorrere di immagini e di itinerari è il motivo portante del romanzo intorno ai quali si svolgono e sviluppano le esperienze di conoscenza e formazione del ragazzo. Consolo, insomma, svolge il romanzo come un seguito di avventure, ricerche, esplorazioni, nuove notizie del piccolo mondo paesano, avendo compreso che il problema dello scrittore è di conoscere e raccontare.
Nel capitolo VI l’esperienza sentimentale di Caterina e del ragazzo è in primo piano, ed egli fantastica coltivando un’idea: che scappi con lei:
In continente nell’Italia nella Francia o in Argentina, dove mi suoni di notte la chitarra mentre scavo la roccia del tesoro per comprarle a Pasqua una vestina larga quanto una campana di seta e taffetà.
Siamo a Pasqua, in aprile, ed egli ricorda il giorno della morte di suo padre:
Ogni anno il venerdì di passione alle tre del pomeriggio, il giorno della frana al mio paese, di dieci pescatori saltati con la mina galleggiante, dello scoppio del colera alla Kalsa di Palermo.
A casa dello zio, e non all’orfanotrofio, si sente più sicuro in paese dove c’è sempre una componente di teatralità: per esempio, spicca nella predica in piazza di un frate toscano (un fiume di parole, il silenzio della gente e battiti di mano e grida). Le elezioni si avvicinano e l’avvocato Sciacchitano, candidato della democrazia cristiana, fa la sua propaganda. La parodia che si legge è gustosissima:
Quando sembrava che la processione fosse finita, chi ti spunta a passetti trafelati dal fondo della chiesa? L’avvocato Sciacchitano: il cappello in mano, le scarpe nuove che gli fanno scroscio; piega una gambetta, si china con fatica per la bussíca che gli crescea davanti e bacia più volte con schiocchetti sonori; si alza rosso fino alla tigna per lo sforzo e, compunto, si va a sedere ai primi banchi, accanto alla moglie e alla figlia, così giovane così vecchia, tanto smunta e bizzocchina.
Consolo ricava il massimo frutto nella rappresentazione della vita della comunità nel momento della processione del venerdì santo: innumerevoli sono gli scatti di visività che hanno un’icasticità straordinaria. Lo sguardo non implica mai protesta morale o sociale o politica. Coglie piuttosto in modo quasi divertito la vita paesana, facendone un ritratto come nella descrizione delle usanze il giorno di Pasqua.
La ferita d’aprile ha un significato preciso: è quella del passaggio d’età, come già s’è rilevato. Aprile – si sa – è il mese in cui il risveglio della natura avanza e ogni mutamento è pur sempre una ferita. Il passaggio dall’inverno alla primavera non è indolore così come non avviene tranquillamente la trasformazione dalla fanciullezza alla pubertà. Poi il mese di maggio: si deve preparare l’altarino alla Madonna, intanto una tromba d’aria avanza e una vecchia centenaria vien portata al mare per fare insolito rito d’esorcismo:
La tromba si fermò, s’incrinò nel mezzo, s’allargò, si sciolse e si disperse come il fumo d’un camino colpito da una raffica di vento. L’acqua cessò di ribollire e si distese. Grida si levarono dalla riva, voci alte, battiti di mano.
La ferita d’aprile, oltre alla passione del Cristo, è anche il ricordo che il ragazzo fa della strage di Portella della Ginestra:
N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e c’erano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò buttò buttò riversi sulle pietre una rosa maligna sul petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto.
Siamo a questo punto nella discesa agli inferi: con la fine della guerra e la caduta del fascismo, s’inaugura in Sicilia la stagione delle stragi; per Consolo la sconfitta che si sta annunciando è il tradimento dei valori della Resistenza di fronte allo schieramento agrario e mafioso.
Oracolare la conclusione:
Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: -Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca? Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina dei morti che verranno appresso.
Di profondo incanto la descrizione tutta siciliana – anche greca, omerica dice l’insigne critico letterario Traina -, che si trova nel capitolo XI:
Il carrubo gettava un’ombra grande e fitta ma, a mettersi là sotto, dall’istituto ci avrebbero scoperti. Era vana quella bella frescura, quel riparo in mezzo alla campagna: mi vedevo buttato, la testa vicino al tronco, a stare, a dormire fino al tramonto. Così rugoso e scuro, cosí contorto, il carrubo l’avevo sempre pensato venuto dall’oscurità del tempo, che affondasse le radici al centro della terra; e il tronco mi pareva di tufo e i frutti di carbone. L’ulivo come il carrubo, la vite e l’asino e le capre, le lancelle di mosto e gli scifi di quagliata, certi vecchi accroccati ma saldi, mi parevano cose antichissime e immortali.
Sembra quasi l’inizio di un procedimento alchemico dove l’oscurità, o la “nigredo”, prelude alla luminosità data dal colore di un popolo sanguigno e fiero. Il romanzo termina con la festa dell’Assunta. Dopo, la fine dell’estate.
Don Lucio, il vecchio professore bevitore che scrive poesie e fa il discorso impastato di latino, di francese e di spagnolo (il nuovo insegnante fuori dall’istituto di Filippo, amico del narrante), è rivelato nella sua recita: grottesca la sua immagine che inclina alla follia. Anche le bizzarrie e le stranezze fanno parte dello spettacolo della vita contenuto nel libro, colto da Consolo con particolare sagacia.
Il capitolo XII conclude il romanzo:
Quella messa dell’otto dicembre, dell’Immacolata, era l’ultima che sentiva all’Istituto, la messa dell’addio.
È una pagina esemplare della satira di Consolo; per il ragazzo l’ingresso nella quotidianità si sviluppa in un lungo viaggio d’assoluta incognita:
Così girai tanti anni per i paesi, all’isole, sulle montagne, alle marine, dal comune d’Alì fino a Messina.
La ferita dell'aprile
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