La madre: il libro di Grazia Deledda
Anche se in una lingua dal forte sentore arcaico, un po’ rozza ed enfatica, la scrittrice sarda Grazia Deledda, seconda italiana dopo Carducci a ricevere il premio Nobel per la letteratura in Italia, ambienta l’interessante romanzo “La madre” (1920) in uno sperduto paesino montano, Aar, dove nasce la poverissima coprotagonista, sposatasi con uno zio molto più anziano che la lascia vedova presto, dopo averle dato Paulo, che lei riesce a tirare su con il duro lavoro di sguattera nel seminario locale. Il piccolo è tutta la sua vita e, con l’obiettivo di fargli vivere un’esistenza meno difficile della sua, lo incoraggia ad intraprendere la via del sacerdozio e lui l’asseconda docilmente, anche se, ancora seminarista, non mancano episodi in cui emerge prepotente la carnalità del ragazzo (colorito quello in cui accetta l’invito della peccaminosa Maria Paska a benedire la sua casa malfamata) come si apprende attraverso un bel flashback. Paulo, divenuto sacerdote molto apprezzato nella piccola parrocchia a cui è assegnato alla morte del licenzioso predecessore, dopo essere caduto in tentazione, analizza consapevolmente, come in una seduta psicoanalitica, le cause che possono aver generato la situazione presente, il che richiama subito alla mente il fatto non casuale dell’appena nata psicoanalisi freudiana, che potrebbe aver influenzato la Deledda nelle sue scelte.
Paulo, ormai uomo maturo, comprende a pieno che il sacerdozio non è stata una scelta autonoma e, innamoratosi di Agnese, la bella e appassionata signora del posto, che visita furtivamente la sera, finché la madre, avendone osservato l’inconsueto comportamento (i meticolosi preparativi prima di uscire) non lo pedina e scopre la pericolosa tresca. Il mondo che lei ha meticolosamente preordinato per lui rischia di essere distrutto da quella che lei considera una sciocca leggerezza, per lo scandalo che sicuramente ne deriverebbe nella piccola comunità (non si dimentichi che l’azione si svolge agli inizi del secolo XX, quando la vita privata era fortemente condizionata dalle convenzioni sociali, in misura ancora maggiore rispetto al presente).
Il romanzo offre un’analisi ardita e straordinariamente profonda sia del personaggio della madre che di Paulo, delle preoccupazioni di lei e dello sforzo che compie sia per bloccare la relazione del figlio con argomentazioni di ordine morale e religioso che per comprendere “la debolezza” del figlio, arrivando a criticare il celibato imposto ai sacerdoti.
La madre di Grazia Deledda a confronto con le altre madri dei romanzi del ’900
La madre del romanzo omonimo di Grazia Deledda è certamente più altruista di Mrs Morel, la madre di Paul, descritta da D.H.Lawrence in “Sons and Lovers”, che in verità pensa solo a sé stessa ed è fortemente gelosa dell’innocente Miriam con cui lui simpatizza, e condiziona psicologicamente il figlio senza usare troppe parole, solo anche manifestandogli la sua disapprovazione con uno sferzante silenzio o limitandosi a guardare l’orologio a muro per sottolinearne il ritardo che l’ha obbligata a rimanere in piedi ad attenderlo, provocandogli, così, forti sensi di colpa e impedendogli di vivere serenamente dei sani rapporti con l’altro sesso.
Il personaggio descritto dalla Deledda è più protettivo e limitativo di quello offerto da M. Gor’kij nell’omonimo romanzo, in cui la madre di Pavel, pur soffrendo e comprendendo i pericoli insiti nelle scelte del figlio, non solo non lo ostacola ma se ne sente fiera e gli permette di spiccare il volo, come ogni buon genitore dovrebbe fare per il suo sviluppo armonico e autonomo.
Nell’opera della romanziera sarda, si scandagliano i condizionamenti materni e religiosi che lui subisce e di cui non riesce a liberarsi, tormentato e ingabbiato fra la passione per Agnese, con gli espedienti che questa usa per fargli mantenere le promesse fattele, e le aspettative socioaffettive che lo fanno quasi impazzire.
Non è da meno la tragedia interiore di sua madre i cui turbamenti ne influenzano anche i sogni, altro elemento a cui Freud, com’è noto, dava un notevole peso, con la presenza del vecchio parroco che la sollecita a lasciare subito il paese col figlio, prima che lo scandalo scoppi.
"La madre" di Grazia Deledda è dunque un’opera dal contenuto modernissimo poiché affronta tematiche ancora alla base della psicoanalisi contemporanea: il condizionamento materno dei figli che ne segna, talvolta irreparabilmente, l’esistenza, ostacolando la scelta obbligata fra il compiacimento dei propri desideri e di quelli altrui, indirizzando verso i secondi.
Non poche le suggestive ed efficaci immagini (“il desiderio però s’infiltrava a poco a poco nel loro amore casto come un’acqua silenziosa sotto un muro che d’un tratto poi marcisce e crolla” per evidenziare l’inutile tentativo di Paulo di opporsi all’amore nascente; “sentiva di amarla ancora, anzi sempre di più, come la vita chi muore”). Potenti le descrizioni dei personaggi che causano turbamento (Maria Paska, il vecchio cacciatore Nicodemo, Marielena, Agnese, il vecchio parroco).
Il romanzo è ricco di simbologie, la più frequente quella del vento, che spira costantemente e sembra rappresentare la forza dell’ineluttabile destino che ricorda certi romanzi di Thomas Hardy in cui è presente la stessa idea pessimistica di inutilità di opposizione alle avversità della vita.
"La madre" è certamente un romanzo che vale la pena di leggere poiché stimola la mente a riflettere sui nostri comportamenti e sulle nostre reazioni a quelli degli altri, regalando pagine di intenso godimento intellettuale.
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Ancora donne nel romanzo deleddiano, donne piccole ma forti, donne madri ma amanti incestuose, donne-marito che sopperiscono al mancato ruolo maritale del maschio sardo.
Ad una lettura attenta, infatti, si scopre che il mondo degli uomini non si discosta di molto da quello delle donne. Anche essi sono frustrati e sbattuti dalle avversità del destino, ma più di essi le donne sarde sanno impersonare tutti i ruoli della vita: di madri, di padri, di amanti fedeli o ribelli.
Una sottile vena omosessuale traspare dai loro gesti, dalle loro parole, dai loro atteggiamenti: carattere questo che senza scadere nel disumano, nell’equivoco, rafforza l’immagine che esse hanno di se stesse e le immunizza da contaminazioni culturali a loro estranee.
La natura
Ancora una volta nei romanzi della Deledda compare una natura antropizzata che si riflette nella luminosità del cielo e nella vividezza dei colori. È la vegetazione che parla all’animo del poeta, è il colore delle piante e del cielo che contrastano con la furia della passione che travolge gli uomini che in essa si muovono alla ricerca dell’assoluto che solo Dio può dare.
Ma tra le forze della natura ancora una volta compare l’immagine del vento che, protagonista anch’esso, parla sussurra, urla, avverte gli uomini dell’inutilità dei loro sforzi, l’uomo non è libero se non dopo aver adempiuto agli obblighi, ai doveri di una vita che è stata loro donata.
Il colloquio che si percepisce tra gli elementi della natura e il loro creatore diventa esplicito quando a parlare è la luna, compagna fedele di un’umanità ancora giovane fatta di attese e di speranze.
Splendida natura ma anche matrigna per dirla leopardianamente, perché si limita ad assistere dall’alto della sua sapienza col volto argenteo della morte.