La gita a Tindari
- Autore: Andrea Camilleri
- Casa editrice: Sellerio
Nelle prime pagine de "La gita a Tindari" (Palermo, Sellerio 2000), la curiosità è attratta dai ricordi giovanili di Montalbano: sessantottino, ma distante da posizioni estremistiche. Ora, da commissario, lo ritroviamo fortemente critico dell’imborghesimento che, nel corso degli anni, aveva catturato i compagni d’un tempo. E’ la solita telefonata a fare cambiare scenario. Danno il via all’azione poliziesca il delitto di un giovane, Nenè Sanfilippo, e la scomparsa di due anziani coniugi, Alfonso e Margherita Griffo, che abitano nello stesso stabile dell’ucciso e si erano recati a Tindari, partecipando a una gita organizzata. E’ una bella studentessa universitaria, che per l’occasione vendeva sul pullman articoli casalinghi, a darne qualche notizia nella fase investigativa. Il loro comportamento, riferisce, manifestava segni di preoccupazione. Inoltre, la ragazza ritiene che al ritorno, dopo una fermata di sosta da loro stessi richiesta, i due non erano risaliti. A rendere lo svolgimento dei fatti più mosso è il rapporto tra Salvo Montalbano e il suo vice Mimì Augello. Se la prende Salvo appena viene da questi informato che intende trasferirsi in altra sede per motivi sentimentali. Eppure, lo spirito di corpo è talmente solido che Mimì ritira la domanda quando si rende conto che il questore Bonetti-Alderighi ne vorrebbe approfittare per smantellare il commissariato di Vigàta, da lui considerato una “cricca di comunisti”. Di rilevante spessore narrativo è l’incontro, per la verità del tutto illegale come gli farà rilevare il superiore, tra il nostro commissario e il novantenne Balduccio Sinagra, capo mafia e rivale dei Cuffaro. A farsi evidente nelle parole del malavitoso, ostile ai mutamenti introdottisi nell’organizzazione della cupola, è la differenza tra la vecchia e la nuova mafia. Nel contempo una sua confidenza infittisce l’intreccio. Quale e in che senso?
Montalbano conduce indagini a tappeto, sviluppa sottili ragionamenti, ed è ai piedi di un ulivo saraceno, archetipo della memoria generazionale, che riesce a scorgere il collegamento tra gli elementi di questo giallo, in apparenza disuniti. A facilitargli l’intuizione è l’osservazione di tre rami che si diramano dallo stesso punto, da “una specie di grosso bubbone rugoso che sporgeva dal tronco”. Analogamente, i casi su cui sta lavorando, così egli riflette, hanno un’unica origine. L’assassinio, poi, di Japichinu, nipote del Sinagra, provoca in lui tante considerazioni. Altri personaggi fanno intanto la loro apparizione e indirizzano l’attenzione a fatti di ampie proporzioni. Le ipotesi non mancano, ma bisogna trovare le prove atte alla loro convalida. Quale la mossa che porterà alla verità sui fatti misteriosi sempre più intrecciati? L’opera cambia spesso direzione, include molteplici aspetti: erotico-passionali, vedute psicologiche, illeciti fortemente inquietanti, riferimenti colti (Manzoni, Conrad) che, oltre a dare di Montalbano l’immagine del raffinato lettore, spingono a saperne di più attraverso l’attivazione di itinerari intertestuali. La scrittura si distende nella varietà dei dialoghi; si vivacizza nella tipizzazione dei personaggi; si accende negli snodi dell’azione e rallenta il respiro fino a provocare il bisogno di pause. Romanzo, in conclusione, di composito registro linguistico La gita a Tindari, dove impegno e trionfo della coscienza civile fanno coltivare sentimenti di riappacificazione con sé e con gli altri.
La gita a Tindari
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