La guerra italiana
- Autore: Marco Mondini
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2014
1915-18 la dura prova degli italiani aspetta ancora un “grazie” cento anni dopo
Una sequenza interminabile di contraddizioni nel conflitto di cento anni fa. La grande guerra italiana è un paradosso, scrive Marco Mondini, ricercatore dell’Istituto italo-tedesco di Trento, nel saggio “La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-18”, edito da il Mulino, 438 pagine 28 euro. Tre segmenti: i precedenti del “maggio radioso”; l’esperienza bellica nelle testimonianze, cronache, letteratura e cinema; il dopo, conseguenze, culto dei caduti, monumenti, mito.
La nostra Grande Guerra è stata dunque una catena di paradossi. Avrebbe dovuto completare il sogno risorgimentale dell’unità, riunire un unico popolo in un unico Stato, ma alla fine l’Italia rivendicò il territorio di Bolzano, abitato da 250mila tedeschi e lasciò alla Jugoslavia Fiume, popolata in gran parte da italiani. Si credeva di compiere il supremo sforzo di una Nazione affratellata, che non si presentò mai tanto lacerata da divisioni sociali e politiche. L’esercito, che si voleva interprete della parte migliore del Paese, non aveva vinto una sola battaglia in Europa dal 1861 e ad Adua aveva subìto la più pesante sconfitta degli occidentali in Africa.
Si è preferita come immagine del ’15-’18 la guerra alpina, in montagna, rarefatta e non decisiva, mentre sul Carso milioni di fanti si sono dissanguati per due anni, sacrificati in undici spallate quasi del tutto infruttuose, su una pietraia brulla, poco spettacolare da raccontare.
E poi l’ingiustificato disprezzo delle capacità militari. A novembre del 1917, dopo il disastro di Caporetto, due milioni di italiani pur battuti e sfiduciati hanno fermato sul Piave gli austro-germanici imbaldanziti, si è dato il merito agli anglo-francesi, appena 200mila, non impegnati seriamente in prima linea in quella fase. E nell’avanzata finale su Vittorio Veneto, continuò la legenda di un successo garantito dallo sforzo degli alleati, come se delle 56 divisioni impegnate nell’offensiva 50 non fossero italiane e solo 6 composte da combattenti stranieri.
Anche la transizione alla pace risultò tormentata. Negativa, per la classe militare, che dovette rinunciare a benefici economici e prestigio sociale. I generali tornarono alla subalternità rispetto ai politici, dismettendo il potere di comando che avevano esercitato sull’intero Paese, non solo sulle armi. Gli ufficiali di carriera videro sfumare una serie di privilegi (Prezzolini sosteneva che avrebbero preferito marciare contro la Jugoslavia o addirittura la Francia, per continuare la bella vita con le ville a disposizione, le automobili, gli attendenti-servitori, le signore per la sera).
Per molti subalterni, sottufficiali e soldati si trattò di un ritorno movimentato alla vita civile, spesso fallimentare. I combattenti rientravano in una società scossa, disattenta ai loro problemi, tutta presa dai propri. Impoverita nelle risorse umane ed economiche, radicalizzata, socialmente tormentata. Protestataria, disordinata.
Un’Italia ingrata, cominciarono a pensare i reduci, accumulando un rancore che spesso esplodeva in rabbia. Erano tantissimi: su una popolazione maschile atta alle armi non superiore a 7 milioni di unità, gli arruolati furono 5milioni 350mila, l’80% dei cittadini tra 18 e 42 anni, uno dei tassi più alti di militarizzazione in Europa.
A milioni erano stati in trincea, tutti erano stati spinti alla più cieca aggressività contro il nemico. Li avevano convinti-addestrati-costretti a violare le leggi naturali e i diritti umani.
Ora, l’abitudine quotidiana alla morte e alla brutalità più sbrigativa che si portavano dal fronte favoriva metodi di protesta violenti, generando pesanti problemi di ordine pubblico.
Paradossalmente, gli italiani vinsero la guerra ma persero la pace, in modo diametralmente opposto a come sarebbe andata trent’anni dopo, conclude Mondini.
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