La moglie di Hopper
- Autore: Christine Dwyer Hickey
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2024
A intentare un calembour di derivazione calviniana, l’ultimo romanzo dell’irlandese Christine Dwyer Hickey avrebbe potuto intitolarsi “Il terreno stretto dei destini incrociati”. Rispetto all’originale The narrow land, l’efficace traduzione italiana di Sabrina Campolongo e Alessandra Patriarca per le edizioni Paginauno, più prosaicamente ha optato per La moglie di Hopper, fermo restando l’intreccio di destini incrociati - sullo sfondo di ville affacciate sul mare - e le strettoie interiori di cui abbonda il romanzo: crasi e ambivalenze psicologiche di cui la moglie di Hopper è (s)oggetto paradigmatico.
Si legge La moglie di Hopper e si ha l’impressione che non sempre è consigliabile accontentarsi di ciò che affiora dai suoi sotto-testi abissali. Il romanzo è infatti di caratura carsica e intricata che seguito fino in fondo – consta di 400 fitte pagine – difficilmente si dimentica. In altre parole: nell’ordito narrativo di La moglie di Hooper si entra dentro sin dalle prime pagine e si resta irretiti come al cospetto della vera letteratura.
Con eco di volta in volta differenti, rapporti irrisolti, doppiezze sentimentali, rancori inespressi, rimossi, e di contro reverie dolorose, costituiscono la cifra comune della narrazione: un sostrato estendibile a protagonisti e comprimari del romanzo. Personaggi come i due giovani character, chiamati a misurarsi, ciascuno a suo modo, coi vissuti traumatici della guerra. Si chiamano:
- Michael: dieci anni, tedesco, orfano di guerra, angosciato da ricordi che non riesce a comprendere, costretto a trascorrere l’estate nella tenuta della sua benefattrice;
- Richie: nipote della benefattrice, orfano a sua volta di un ufficiale americano, tormentato a sua volta da ricordi traumatici e dai problemi sempre crescenti della madre.
Abbandonati a se stessi e al tedio della stagione estiva, i due bambini entrano in contatto con una coppia di vicini di casa. Una coppia, per così dire illustre: lui è il pittore Edward Hopper. Lei, la moglie. Si chiama Jo. Le loro dinamiche relazionali costituiscono la polpa ulteriore del romanzo. Per l’ambivalenza sentimentale sviluppata nei confronti del marito e in fondo verso se stessa, Jo si impone come personaggio-nemesi dell’artista: pittrice a sua volta, fallita, succube, impulsiva, irascibile, passionale, irrisolta. Soffre in fin dei conti l’isolamento e una vita trascorsa all’ombra di una figura castrante. Dal canto suo Edward non brilla per slanci: al punto in cui lo si incrocia nel romanzo è infatti un uomo in crisi. Introverso e vittima di un blocco creativo, rimarrà colpito dalla fragile avvenenza di Katherine, giovane irresistibile, zia di Richie, potenzialmente la sovvertitrice ideale dei fragili equilibri di coppia.
Questa è in breve l’ossatura di una trama emblematica e stratificata, costruita all’abbrivio di timore e tremore sentimentali, solitudini, fatalità, incomunicabilità. Sul crinale sdrucciolo dei fantasmi di guerra e delle promesse parimenti fantasmatiche del sogno americano. Ma La moglie di Hooper si staglia anche – soprattutto - come sontuosa esplorazione narrativa di Edward Hopper – l’uomo, l’artista – tra le sensibilità pittoriche più efficaci del secolo scorso.
Nello stile accurato e profondo che gli è proprio, l’irlandese Christine Dwyer Hickey (Tatty (2004), Farley (2011), entrambi editi da Paginauno) con La moglie di Hooper consegna alle stampe il suo libro forse più maturo.
La moglie di Hopper
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