La parte d’ombra delle cose. Lettere di un umanista impenitente
- Autore: Stefan Zweig
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: L’orma editore
- Anno di pubblicazione: 2022
Sta diventando di enorme impatto "emozionale" leggere la collana dal titolo I Pacchetti che la casa editrice L’Orma sta pubblicando, che racchiude le lettere di grandi autori e autrici del Novecento e, in misura più limitata, anche di autori dei secoli scorsi, andando a ritroso.
Ne La parte d’ombra delle cose. Lettere di un umanista impenitente (L’Orma editore, 2022, traduzione suggestiva di Marco Federici Solari) ritroviamo Stefan Zweig, scrittore e giornalista cosmopolita e raffinato, nato a Vienna nel 1881, sempre contrario alle guerre, in un mondo che, dopo il primo Conflitto mondiale, cominciò a germinare totalitarismo, di stampo diverso, ma comunque per Zweig orrendo. Zweig accettava a denti stretti il totalitarismo sovietico, perché alla base c’era l’idea che non ci sarebbero più stati dirigenti e proprietari di aziende milionari, mentre l’operaio vivacchiava col salario minimo: tutti uguali, tutte le aziende statalizzate e l’istruzione diffusa, l’ateismo come materia scolastica, dal momento che, anche se si facevano code lunghissime per il pane, si viveva nel migliore dei mondi possibili. Al contrario, quando il totalitarismo nazista, aggressivo e spietato, nel 1938 entrò a Vienna per formare la grande Germania unita, Zweig, che era ebreo, scappò dall’Europa per andare negli Stati Uniti e poi in Brasile, dove nel 1942, a Rio De Janeiro, si suicidò insieme alla seconda moglie.
Poliglotta raffinatissimo, oltre alla sua madre lingua che non amava particolarmente, il tedesco, Zweig parlava e scriveva in un francese perfetto, lingua che sceglieva spesso quando sbrigava la corrispondenza.
Quotidianamente l’autore scriveva come minimo cinque o sei lettere, perché, oltre a fare lo scrittore, era giornalista e traduttore. Zweig non solo viene ricordato per la ferrea certezza che fare le guerre fosse moralmente orribile, ma molti suoi articoli vertevano sulla pericolosità intrinseca che trovava nel suo connazionale Hitler. Lo scrittore aveva capito da subito che il capo del nazismo non solo voleva che la Germania si riscattasse dall’essere stata battuta nel primo Conflitto mondiale, ma il suo sogno era la Grande Germania, che significava tutta l’Europa più la Russia sovietica. Un esaltato che non sarebbe mai tornato indietro dal suo piano folle, una personalità schizoide e Zweig usava questi termini perché, pur essendo un ateo con mille dubbi, era fermamente convinto dalle teorie di Sigmund Freud. Non trovò motivi sufficienti per inficiare nessuna delle affermazioni di Freud, che in realtà era spaventato da Hitler in egual misura di un contadino illetterato. Nelle lettere del giovane Zweig si capisce subito che era a caccia di un mentore, di un intellettuale che lo potesse aiutare anche nelle altre abilità dell’autore, come traduttore e giornalista.
Riportiamo di seguito un brano (da una lettera breve che citiamo quasi interamente), non solo per capire lo scrittore Stefan Zweig e il suo umanesimo, ma anche perché, nonostante i viaggi compiuti, il cosmopolitismo e la sua ferrea volontà per seguire le teorie di Freud, c’è nel suo scritto un certo spirito naïf, tipico di chi non pratica lo stile sarcastico dell’uomo di lettere. La lettera è indirizzata allo scrittore francese Romain Rolland e inizia con le frasi di circostanza per poi proseguire col testo. Siamo alla fine del 1914, in piena guerra:
"Le scrivo in tedesco, perché le lettere per l’estero possono essere oggetto di ispezione... Non ho mai pensato a lei tanto spesso e con maggiore affetto, non ho mai sentito più intensamente come l’importanza che abbiamo l’uno per l’altro passi soprattutto per la franchezza e sincerità (n.d.r. in realtà i due si erano conosciuti solo per qualche convegno e per alcune serate danzanti). Quando ieri ho letto che Charles Péguy (n.d.r. poeta francese, morì al fronte nel settembre del 1914) è caduto in guerra, ho provato solo tristezza e sgomento, non tenendo conto che come francese, lui è caduto per le armi di un austriaco come me... che gran tristezza la morte di un essere umano dal cuore nobile e puro! E quanti giovani sono morti prematuramente, prima di divenire magari dei nuovi Beethoven o Balzac! La nostra è un’epoca terribile e per esserne degni, dobbiamo fare ricorso a tutta l’umanità che abbiamo".
La fine del primo Conflitto bellico fiacca la naturale predisposizione verso la natura buona dell’uomo di Zweig, che diventerà più duro e meno idealista. Ma il nazionalsocialismo e Hitler furono per lo scrittore devastanti, non importa che vivesse in Brasile, dove con la seconda moglie era in piena sicurezza, quasi non si sentiva nemmeno un rumore che ricordasse quello di una bomba e bisognava comprare il giornale per essere informati del secondo Conflitto mondiale. Forse qualche ebreo appena arrivato in Brasile poteva aver parlato a Zweig dei ghetti ebraici e dei primi lager. Ebrei che partivano con un treno senza fare ritorno furono troppo per la bontà del nostro scrittore e quindi il doppio suicidio fu la logica conclusione del "cuore semplice" di Zweig, che pur essendo scappato dall’inferno dell’Europa, non riusciva più a dare senso a una vita come la sua, di un umanista "impenitente" che credeva nella naturale bontà dell’essere umano. La delusione fu troppo forte da sopportare e il suicidio rimase l’unica cosa da fare. Per inciso, pensiamo anche a quanti uomini e donne, sopravvissuti ai campi di concentramento, si uccisero dopo dieci, quindici anni dopo il 1945, quando ormai l’Europa era totalmente cambiata. Ma non per loro.
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