La paura del cielo
- Autore: Fleur Jaeggy
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
"Johanna aveva paura del cielo, quando sentiva quelle imprecazioni. Stringeva la piccola. Per nasconderla al cielo".
Tutti i personaggi di Fleur Jaeggy hanno sempre paura di qualcosa: dell’allegria, della malattia, dell’abitudine, della consuetudine, della vita. E anche del cielo, hanno paura. Sì, del cielo che sta sopra alla vita di ciascuno dei personaggi che abitano i sette racconti "perfetti" (come ebbe a dire Le Monde) de "La paura del cielo" (gli Adelphi, 1998).
Il minimo comun denominatore che avvinghia un protagonista all’altro, un racconto all’altro, una vita all’altra, è la Morte, ma non necessariamente la morte fisica, no. Prima di tutto in Fleur Jaeggy c’è la morte interiore: un senso di abbandono, noia e dolore remissivo che permea figure esili ed eteree, quasi dei fantasmi in carne ed ossa, dal verbo puntuale e tagliente.
Soffia un vento gelido e calmo, il Föhn, tra le pagine che scandiscono le vite al limite di Marie Anne e Johanna, di Gretel e Otto Karl Ruegg, dei signori Heber, delle amanti Ruth e Freneli, di Doris Bechtler e della serva Porzia, dei due gemelli Schübeli e di Verena, la vecchia vanesia dell’ultimo racconto. Candide figure imbevute di sofferenza, contro cui la vita si accanisce crudelmente, senza lasciare margine di errore o di fuga. Se Johanna e Marie Anne sono legate tra loro dal destino di una bambina che avrebbe dovuto "ornare la madre", vecchia e stanca, che reclama per sé una creatura viva da poter cullare, ed è pronta a suicidarsi nel momento in cui vede svanire questo sogno, Ruth e Freneli vivono la loro storia d’amore omosessuale all’ombra di una finta normalità, che le aiuta a concentrarsi su una convivenza improvvisata, ma che durerà ben trentadue anni, nonostante quel filamento colloso di rabbia e risentimento che Freneli sembrare provare a tratti per Ruth. Lo stesso risentimento appiccicoso che lega Doris ai suoi genitori, colpevoli di essere morti in un incidente stradale senza averle prima dato il bacio della buonanotte, perché Doris, con i suoi ventiquattro anni e una stanza tutta rosa, non riesce a prendere sonno senza l’abbraccio affettuoso di mamma e papà. Ma è pur vero che ormai Doris sta bene, perché "si sta bene al mondo, quando non si ha bisogno di nulla. Come si stava bene, anche se i genitori erano morti. Lei era la padrona della casa vuota e del giardino, ma anche la padrona dei suoi genitori. Quando gli altri muoiono siamo un poco i loro padroni, i loro tutori".
Questo mortale senso del possesso si insinua negli animi di tutti i personaggi del libro, come anche nei gemelli Schübeli, padroni della loro vita ma più ancora padroni della vita dell’altro: Hans della vita di Ruedi e Ruedi della vita di Hans. Si scambiano un’esistenza accartocciata ai piedi del cimitero, ovattata, impregnata di un silenzio che odora di carne marcia:
"Nell’orfanotrofio si infliggeva il bene e l’elemosina. Quell’elemosina che non fa che perpetuare la miseria. Si erano inselvatichiti, non provavano affetto per nessuno".
Immobili, vestiti con gli stessi abiti scuri indossati per la Confederazione, distesi sul letto di morte, i gemelli si tengono per mano, respirando uno la vita dell’altro, senza aver bisogno di nulla, se non di un un fucile, una vanga e un forcone, "tre oggetti utili" siti "nel corridoio, vicino alla porta d’ingresso".
E poi ci sono Kurt e Verena, anzi c’è Verena che uccide Kurt, anzi, c’è Verena che spinge Kurt a spiccare il volo, verso il cielo, senza avere paura. Del cielo.
"Verena è meticolosa, nello stesso modo in cui cuce le sue stoffe ora cuce parole e pensieri. L’assassinio era il più bel ricamo della sua vita. Lei sentiva gli applausi. Quante donne avrebbero ammazzato così il proprio marito, senza essere assassine".
La vanità, intrisa di quell’amarezza che la vita trascina con sé nei cuori di chi è giunto al capolinea, si fa spazio tra le pieghe di una vecchiaia che in Verena sembra essere sempre giovane.
"In fondo lei lo ha solo aiutato nel suo sogno. Nell’attuazione di un sogno. Kurt voleva volare. E per volare, disse Verena nell’aula con tono asciutto, bisogna cadere".
Sette racconti di raffinata ferocia umana, dal tono apparentemente sommesso e delicato, come il favonio che raffredda le coscienze in preda alla follia di una falsa redenzione. Così Fleur Jaeggy continua a dare voce ad un percorso interiore che arranca dietro l’incedere della Vita, che non lascia scampo. Poche pagine di ammaliante bravura, coinvolgenti ed angoscianti, pericolose come una roulette russa.
"Giocarono ad essere felici. La felicità feriva come una lama ardente".
La paura del cielo
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