La prima verità
- Autore: Simona Vinci
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2016
“La prima verità”, con cui Simona Vinci ha vinto il premio Campiello due anni or sono (Einaudi Stile libero, 2016, pp. 396, euro 17,00), è un’opera che non rientra in un genere definito, collocandosi a metà strada tra realtà e finzione, strizza l’occhio al saggio ma è strutturato come un romanzo e, come si vedrà meglio dopo, poteva essere (ma non è) un’autobiografia.
La narrazione si snoda attraverso numerosi flashback che danno luogo a una lettura particolare, impegnativa, con un linguaggio volutamente crudo, per affrontare un tema molto forte: la situazione drammatica dei confinati in un’isola-manicomio in Grecia, Leros, che ospitava malati mentali e non solo. Infatti, veniva utilizzata anche come luogo di confino per detenuti politici durante la dittatura ellenica dei colonnelli.
“La prima verità” inizia con la descrizione di una terribile fotografia pubblicata nel 1970 dalla rivista L’Espresso, dal titolo: “Ma è per il suo bene”. Ritrae una bambina nuda, legata al letto dell’ospedale psichiatrico Villa Azzurra di Grugliasco in provincia di Torino e "quel bene" è la pratica dell’elettroshock, che veniva usata come cura d’urto per bambini considerati ribelli e ineducabili. Simona Vinci precisa:
Sono stata una bambina pericolosa per sé e per gli altri. Mi è andata bene. Se fossi nata solo cinque anni prima del 1970, in un altro contesto sociale, avrei potuto essere io quella bambina nuda, legata con cinghie di contenzione a un lettino spinto contro i margini dell’abisso.
Ci volle la legge Basaglia nel 1978 prima che Villa Azzurra chiudesse definitivamente i battenti. Il racconto si sposta poi a Leros con la protagonista, Angela, dietro la quale si cela la stessa scrittrice, che vi si reca allo scopo di raccogliere documenti e testimonianze a fini di studio, ricostruendo in tal modo i segreti e le storie di chi ha vissuto in quel luogo. “Storie di fantasmi”, le chiama. Con sé porta solo uno zaino con dentro l’Odissea e Robinson Crusoe (espressione di avventura e di ricerca), più un faldone di fotocopie di alcune lezioni tenute da Michel Foucalt sul potere psichiatrico e una macchina fotografica. Attraverso Angela vediamo il passato e il presente di chi sull’isola è confinato per lavoro e chi perché malato o, troppo spesso, solo supposto tale. Tra i primi ci sono i medici, la dottoressa Lellis e il dottor Moros:
Sono diventato psichiatra per curare la testa della gente e mi ritrovo qui a fare il domatore di leoni
I due dirigono l’istituto con disinvoltura:
Qui non ci sono molte alternative al cinismo.
Tra i secondi c’è il monaco Basil, rinchiuso perché colpevole di aver manifestato la propria fede con slancio e ardore ritenuti eccessivi, e due poeti: Stefanos, considerato oppositore al regime ˗ ispirato allo scrittore Stefano Tassinari a cui il libro è dedicato ˗ e il greco Ghiannis Ritsos; il titolo del romanzo riprende il verso di una sua poesia, “Lascito”, riportata in esergo. La vicenda di Stefanos, inoltre, si intreccia con quella di una paziente, Teresa, e di un bambino, Nikolaos, che porta il lettore a scontrarsi con una dura realtà che induce a profonde riflessioni sulla crudeltà umana. Questi personaggi si ricollegano ai matti che la scrittrice vedeva da bambina nel suo paese nel bolognese, dove c’erano due istituti specialistici dentro i quali si trovavano ricoverati. Non è la prima volta che Simona Vinci parla di argomenti scottanti con una prosa schietta e sincera. Ha esordito, infatti, in narrativa nel 1997 proprio con la collana Stile libero di Einaudi (editore storicamente attento ai valori e alla cultura di impegno civile) con un romanzo che fece molto scalpore: “Dei bambini non si sa niente”, dove parla della scoperta del sesso da parte dei più giovani e in cui questa loro esplorazione li condurrà a un gioco fatale.
Non c’è solo la Grecia ne “La prima verità”. Troviamo anche un piccolissimo pezzo d’Africa, esattamente la Sierra Leone, con la descrizione, ancora una volta, delle terribili condizioni in cui versava una struttura (l’unica di tutto lo Stato) e di chi viveva da degente, il Kissy Mental Hospital, dove in un muro c’era una scritta piuttosto eloquente:
“essere un un uomo non è semplice, io non sono pazzo”.
Una storia potente, quindi, che ci conduce in una dimensione al contempo reale e fantastica, ma non certo salvifica e meno che mai consolatoria.
Come disse il grande filosofo Emil Cioran:
Forse la follia è soltanto un dispiacere che abbia smesso di evolversi.
La prima verità
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