La rosa profonda
- Autore: Jorge Luis Borges
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2013
La rosa profonda di J. L. Borges (Adelphi edizioni, pp.154, 2013, a cura di Tommaso Scarano), fiore metafisico e immarcescibile:
quella che sempre è la rosa delle rose, / il giovane fiore platonico, / l’ardente e cieca rosa che non canto, / la rosa irraggiungibile
Cantata invece con incomparabile splendore, è compagna “animica” del poeta in uno dei momenti più dolorosi della sua esistenza, la lunga malattia della madre, iniziata nel 1973 e terminata con la sua dipartita nel 1975.
Nei due anni Jorge Luis Borges compone questa silloge, in alcuni punti straziante, mentre in altri la forza morale diventa vittoria sul destino, accettandolo.
Sia i Romani che i Persiani piantavano abitualmente roseti nei cimiteri; Ecate dea dell’oltre tomba portava sul capo una corona di rose a cinque petali. Simboleggia sia la morte che la rigenerazione, il cosmo, la vita eterna, il mistero della "astratta scacchiera" del nostro divenire, come Borges la rappresenta, guidata e mossa dall’Altro, il Dio inaccessibile:
Le pedine d’avorio sono estranee / all’astratta scacchiera, come la mano / che le muove.
Bellezza, amore, totalità, melanconia per la vita intessuta di “brevi gioie e lunghe sofferenze” sono espressi con aderenza al fiore dai molti significati, il fiore che Dante ha posto nell’Empireo, costituente l’insieme dei beati.
La rosa borgesiana è un archetipo platonico, circolare come lo spazio curvo non euclideo; rappresenta la sua visione cosmogonica, ed è appunto Cosmogonia il titolo di una lirica fondamentale della raccolta:
Né tenebra né caos. Esige occhi / che vedano, la tenebra; così /suono e silenzio esigono l’udito, / e lo specchio, la forma che lo popola. / Né lo spazio né il tempo. E neppure / una divinità che concepisce / il silenzio anteriore all’iniziale / notte del tempo, che sarà infinita. / Il gran fiume di Eraclito l’Oscuro / non ha intrapreso il corso irrevocabile / che dal passato va verso il futuro, /che dall’oblio va verso l’oblio. / Qualcosa che già soffre. Che già implora. / Dopo, la storia universale. Ora.
La poesia è l’occhio e l’udito della tenebra, della cecità, metafora dell’ignoranza. L’ignoranza che intristisce Leopardi mentre invoca la luna, osservando lo scorrere delle stagioni. “E tutto è ORA”, comprende Borges.
Pensieri ed emozioni consimili sono cantati da Rilke in francese nella sua ultima silloge, scritta a ridosso della fine, Le rose, con una grazia e un abbandono che pure Borges possiede.
Abbandonarsi al destino non implica alcuna debolezza, piuttosto è stoicismo, abbandono alla Provvidenza tradizionale della teologia, che Jorge non menziona, ma a conti fatti la Provvidenza è nome e sinonimo di quell’"Altro” che l’Argentino chiama in causa, a cui cede il passo, eliminando l’egoismo secondo il buddhismo, perché l’io, come la rosa, paradossalmente nel suo estinguersi materiale diventa plurale, compimento di ogni singola parte nel tutto, pezzo della scacchiera immensa.
Io è un’altra lirica del dissolvimento, un’immersione dove il mondo apparente non è l’essenziale e termina con i versi:
sono colui che invidia chi è già morto. / Più strano essere l’uomo che ora intesse / parole in una stanza di una casa.
L’enorme serenità di una tale contemplazione è la rarità del genio che guarda l’abisso, rasenta il nulla, alla maniera dei mistici apofatici, conservando la lucidità coscienziale. È il Nirvana?
"Svanire / è dunque la ventura delle venture" ha scritto Montale in "Portami il girasole".
I poeti trovano modi sempre nuovi per esprimere tematiche universali.
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