La scena perduta
- Autore: Abraham Yehoshua
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2011
Pubblicato a novembre 2011 con Einaudi, è visionario e misterioso l’ultimo romanzo di Abraham B. Yehosua, La scena perduta, il cui titolo originale, Hessed sfaradì, Carità spagnola, riecheggia in modo emblematico una scena del tardo mondo classico, che è il perno di tutta l’opera.
Yair Moses, settantenne regista cinematografico israeliano, appartenente ad una famiglia laica di Gerusalemme originaria della Germania, viene invitato, quale ospite d’onore, ad una retrospettiva dei suoi film, organizzata da un’insolita associazione di cinefili nella più scenografica ed insolita tra le città spagnole, Santiago de Compostela. Un luogo che non dimentichi, anche se ci sei stato solo una volta.
Yair divide la camera d’albergo -un tempo ospedale per pellegrini, situato in una vasta, silenziosa piazza accanto alla Cattedrale- con Ruth, un’attrice ormai matura, ma ancora ricca di fascino, protagonista di tutti i suoi film ed ora insolita compagna. Ad una parete della stanza ben presto egli vede appeso un quadro, che lo fa ritornare indietro nel tempo. Si tratta di una riproduzione della Caritas romana, del pittore Matthias Meyvogel (ma il soggetto ha attratto anche Caravaggio e Rubens), ispirata al tema di una giovane donna che allatta un uomo anziano.
L’argomento è tratto dallo scrittore romano Valerio Massimo, il quale, nei Facta et dicta memorabilia, racconta della giovane Pero che si reca di nascosto a nutrire suo padre Cimone, incarcerato e condannato a morire di fame.
Il regista ricorda che una scena molto simile, diversi anni prima, gli era stata proposta come finale di una pellicola da Shaul Trigano, allora suo sceneggiatore e compagno di Ruth. Quando la donna si era rifiutata di girarla, Moses si era schierato dalla sua parte. Di conseguenza erano finite sia la relazione amorosa tra Ruth e Trigano, sia la collaborazione artistica tra quest’ultimo e Moses.
Il quadro rappresenta una sorta di “Scena perduta”, quella che pensiamo di aver dimenticato, ma che, in realtà, è parte integrante del nostro essere, poiché riaffiora nei momenti più impensati dell’esistenza.
Ma il soggiorno spagnolo riserva ulteriori, e collegate, sorprese.
Pian piano che la rassegna prosegue, Yair si accorge che vengono proiettati solo i suoi primi film, alcuni dei quali egli non ricorda neppure. Sono lavori, per così dire, sperimentali, fortemente simbolici, risalenti agli anni della collaborazione con Trigano, molto diversi dalle opere con forte impronta realista concepite successivamente. Facile indovinare che ispiratore dell’invito e della rassegna è proprio il suo ex sceneggiatore, deciso ad un confronto con lui e con le sue scelte.
L’occasione è dunque un percorso a ritroso nel tempo, per ritrovare un certo fervore artistico smarrito, fervore che può rinnovarsi anche in età anziana:
“Proprio quando il futuro è breve….si fa intenso e interessante”
gli fa notare un personaggio del romanzo.
Ritrovare il linguaggio simbolico lasciato da parte: una simbologia di cui, avverte oggi l’Autore in una recente intervista “c’è bisogno oggi più che mai, nella situazione che abbiamo intorno”, in Israele, in primo luogo, ma non solo.
Il libro è l’occasione per esplorare il mistero della
“creazione artistica, letteraria, cinematografica ... e, in particolare, l’interazione tra il genio della fantasia e l’imprescindibile fondamento costruttivo”
Anzi alcuni dei film rappresentati a Santiago riprendono alcuni racconti giovanili di Yehoshua, come L’ultimo comandante o Il rapido serale di Yatir.
C’è pure un altro tema di rilievo: il rapporto con le radici spagnole della cultura sefardita, tanto più interessante se si considera che anche lo scrittore proviene da tale ambiente. Il padre, Yaakov, è stato un rilevante storico, studioso della storia di Gerusalemme, profondo conoscitore ed amante della cultura araba, e la madre, Malka Rosilio, era giunta in Terra di Israele dal natio Marocco nel 1932.
Trigano è un ebreo orientale, come Ruth del resto, immigrato nei primi anni di vita dello Stato, una persona che ama sfidare gli equilibri apparentemente consolidati nella società israeliana, dove l’élite dominante, askenazita e laica, di cui fa parte Yair Moses, riteneva, a torto, di avere vinto il fanatismo religioso. Problema niente affatto superato, come lo sceneggiatore viceversa aveva intuito; tanto da combatterlo, grazie a quei primi film, attraverso i simboli al fine di metterne in luce l’aspetto paradossale.
Romanzo a volte difficile, con alcune significative venature autobiografiche, ma suggestivo, attento a quell’oscuro abisso, come lo definisce il protagonista, che sta in agguato dietro alla realtà visibile e palpabile. Ed è verso un giusto equilibrio tra questi due elementi -metafora e realismo- che deve muovere la creazione artistica, anche se talora il finale di una storia può apparire vago e incerto. Ma il finale, come spiega il regista
“è sempre un compromesso tra ciò che era e ciò che non sarà più”.
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