La vita di Cechov
- Autore: Irene Némirovsky
- Casa editrice: Castelvecchi
- Anno di pubblicazione: 2012
Anche “l’angolo più sperduto della terra, il più diseredato, per un bambino, è pieno di varietà e di vita” ed era per questo che il piccolo Anton non si annoiava a Taganrog, cittadina della Russia meridionale il cui cuore era il suo porto. Lo scrittore e drammaturgo era nato il 29 gennaio 1860 in questa cittadina costruita sul Mar d’Azov, terzo dei sei figli (5 maschi e una femmina “tutti avevano doti brillanti”) di Pavel Cechov (“povero e tirchio”) e di Evgenija Jakovlevna Morozova (“tutti erano abituati alle lacrime della madre”). Anton “un bel maschietto biondo con la carnagione chiara, i lineamenti generosi, l’espressione dolce e allegra” guardava con interesse continuamente rinnovato le barche, i ponti, il mare del suo luogo natio, un tempo città mercantile facente parte di quelle province che in Russia erano chiamate “le città sorde”, perché immerse in una pace profonda ove chiudevano le orecchie al rumore del mondo.
I Cechov appartenevano a una razza solida, contadina, Pavel mercante della terza gilda (suo nonno era stato un servo della gleba che era riuscito a riscattare se stesso e la sua famiglia) aveva una bottega dove vendeva di tutto. L’uomo, molto devoto, era il classico padre di famiglia russo delle classi popolari che trattato da schiavo da gente più potente di lui, tra i suoi famigliari si comportava da despota come un reuccio orientale. Sua moglie (figlia di un mercante) doveva solo tacere e i suoi figli solo rigare dritto. Anton rinchiuso nella bottega paterna, che fungeva da drogheria, erboristeria e merceria cercava e trovava dappertutto briciole di felicità “come una pianta attira a sé dal terreno più ingrato gli elementi nutritivi che gli consentono di sopravvivere”. Era divertente osservare i clienti del negozio, perché ognuno di loro aveva il suo linguaggio, i suoi gesti, i suoi tic, le sue storie che appartenevano solo a lui, alla sua razza e alla sua casta. Chissà quanti di questi concittadini saranno in futuro diventati personaggi indimenticabili della produzione letteraria di uno tra i più meritevoli autori russi, il quale “per tutta la sua vita preferì sempre ascoltare piuttosto che parlare”. Anton amava il teatro e si divertiva a recitare con i suoi fratelli. Nel 1873 l’adolescente aveva iniziato a scrivere i primi canovacci testimoni del talento che il ragazzo aveva ricevuto in sorte. Nel 1876 dopo il fallimento della bottega di Pavel e la sua fuga a Mosca, la madre di Anton aveva venduto tutti i pochi beni e aveva raggiunto il marito con i figli. Anton era rimasto solo a Taganrog e qui nei successivi tre anni crebbe e si fortificò nel corpo e nell’anima. Il ragazzo “volto molto russo e molto contadino” era nato scettico, indipendente e beffardo e preferiva trovare il suo cammino personale da solo. Durante quei tre anni nei quali era diventato uomo, Cechov era andato spesso a Mosca piena di sollecitazioni culturali. “Ah! Mosca, Mosca!” era per lui più di anelito.
“Il futuro scrittore non sognava di conquistare la capitale. Era meravigliosamente privo di ambizione. Quello che reclamava era un alimento per la sua immaginazione e il suo cuore”.
Il 6 agosto 1879 Anton saliva sul treno che lo avrebbe condotto a Mosca neo studente universitario della Facoltà di Medicina: il destino era tracciato “tutta la mia speranza è nell’avvenire”.
In questa biografia che è anche un saggio sulla letteratura russa (“il pubblico cercava in essa una dottrina”), Irène Némirovsky racconta la breve e tormentata esistenza (“ebbe sempre paura di abbandonarsi completamente alla gioia e al dolore”) di un autore che fu fondamentale nella vita della scrittrice ucraina naturalizzata francese. Più che una biografia, il volume come ha annotato Le Figaro “è un atto d’amore”. I racconti di Cechov “sono esseri viventi con i difetti e le qualità degli esseri viventi: l’imperfezione umana e la misteriosa vibrazione della vita”.
Il padre de Il gabbiano, Il giardino dei ciliegi, Zio Vanja, Le tre sorelle, La steppa, Ivanov, ecc... che seppe descrivere la nobiltà terriera della Grande Madre Russia con un accento quasi profetico, una società al suo declino, (“sono dei condannati che dipinge per noi”) morì di tisi a Badenweller in Germania il 15 luglio a soli 44 anni assistito dalla moglie Olga Knipper.
“Una farfalla notturna, enorme e nera, entrò in camera nello stesso istante. Volava da una parete all’altra, si lanciava sulle lampade accese, ricadeva dolorosamente, con le ali bruciate, e riprendeva il suo volo cieco e fatale. Poi ritrovò la finestra aperta sulla dolce notte buia e scomparve. Cechov, però, aveva cessato di parlare, di respirare, di vivere”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La vita di Cechov
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