Le grandi battaglie della prima guerra mondiale
- Autore: Giuliano Da Frè
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Newton Compton
- Anno di pubblicazione: 2015
L’Italia entrò nella Grande Guerra da piccola nazione ma la concluse da potenza mondiale.
La fine è nota, come l’inizio. Due colpi di pistola il 28 luglio 1914 a Sarajevo, 10 milioni di morti l’11 novembre 1918. È la Grande Guerra, che ha visto l’incremento esponenziale della capacità dell’uomo di provocare sofferenze alla sua specie, il conflitto che ha aperto l’epoca della guerra globale. Il suo andamento e le strategie autodistruttive sono illustrati, insieme alle armi e ai protagonisti, in modo abile ed efficace dal ricercatore di storia militare Giuliano Da Frè nel volume “Le grandi battaglie della prima guerra mondiale”, tra le novità Newton Compton (2015, 480 pagine 9,90 euro).
Ci sono tutte, dalla battaglia delle frontiere sul fronte francese alla resa germanica a Compiegne, e tutte le vicende, passando dalle offensive e ritirate negli sconfinati scenari delle foreste prussiane, delle pianure polacche, degli oceani, compresi i massacri nei Dardanelli e le spallate italiane sul Carso.
Guerra di uomini e di materiali. Di grandi masse: i tedeschi mobilitarono 13 milioni di combattenti, l’Austria-Ungheria 8 milioni. Dalla parte dell’Intesa, la Russia mosse 12 milioni di soldati, subendo il 56% di perdite tra morti e feriti, la Francia arruolò 8.410.000 nazionali e coloniali, perdendone addirittura il 67% e l’Italia mise in armi quasi 6 milioni di uomini, falcidiati per un terzo (29%).
Grande sviluppo di mezzi tecnici e di tecniche belliche, straordinariamente evolute nel quadriennio abbondante di fuoco. Armi nuove, sperimentate nei primi mesi e perfezionate in anni di scontri incessanti. Sommergibili, aerei, carri armati, grandi artiglierie e le mitragliatrici, le vere padrone di quella guerra, insieme al filo spinato. La Germania disponeva all’inizio di 12.500 esemplari, capaci di mietere fanti e cancellare dai campi di battaglia un’arma secolare come la cavalleria.
L’Italia entrò in azione quasi un anno dopo con appena 618 mitragliatrici. Una carenza che la giovane piccola potenza riuscì a colmare col tempo, grazie allo sviluppo straordinario del suo apparato industriale. Un gigantesco balzo avanti produttivo e tecnologico, che consentì di finire il conflitto con un potenziale bellico di prim’ordine ed una delle armi aeree più forti. I trimotori Caproni non avevano rivali tra i velivoli da bombardamento. Nel 1940-45, invece, la presuntuosa macchina da guerra fascista non fu nemmeno pallidamente in grado di tenere testa ai giganti mondiali dell’industria pesante. Una pur valida progettazione si scontrava col gap di impianti e materie prime, che consentivano al più produzioni da “secondo mondo”.
Orribile e dannatissima, la Grande Guerra segnò un progresso straordinario per l’umanità, purtroppo al servizio della morte. Per la prima volta, sulle trincee si propagò il soffio letale dei gas venefici. Il 22 aprile 1915, i fanti inglesi che presidiavano un settore del saliente belga di Ypres videro fuggire un gruppo di soldati francesi di colore, disperati: scossi da conati di vomito e quasi incapaci di respirare, il volto grigiastro, congestionato, gli occhi protesi dalle orbite. Poi toccò a loro. Dalla terra di nessuno avanzò una foschia strana, una nebbiolina giallastra. I Tommies cominciarono a sputare, tossire, portare le mani alla gola, come se stessero per soffocare. Era il primo attacco con gli aggressivi chimici. Sostanze letali, asfissianti, vescicanti, inabilitanti causarono 85mila morti (soltanto?) in tutti i fronti, ma ben 1.200.000 intossicati.
Vennero escogitati modi sempre nuovi di uccidere i nemici. Qualcuno si intestardì perfino a provocare la morte dei propri soldati, per impreparazione, cocciutaggine, negligenza, per l’ostinazione nel perseverare in attacchi suicidi, a causa di concetti tattici che si rivelavano superati ma venivano colpevolmente reiterati. Nei primi mesi, i francesi andarono all’assalto in giubba blu, pantaloni rossi e chepì: vistosi bersagli viventi.
Anche i nostri, nello “sbalzo” del giugno 1915 che avrebbe dovuto portarli a bandiere spiegate a Trento, Trieste e Lubiana, si ritrovarono in pochi, male armati e sfiduciati a risalire pendii scoscesi difesi sulla sommità da poche ma esperte truppe austriache, ben dotate di centri di fuoco insuperabili. Da Frè lo mette in evidenza impietosamente: il 24 maggio erano 400mila contro 100mila difensori, ma solo due Corpi d’Armata avevano i ranghi al completo. La mobilitazione e radunata furono condotte con grande confusione.
Nel 1918 quella guerra l’abbiamo poi vinta, nonostante Caporetto, ma i cimiteri nel Nord Est stanno a raccontare quanto ci è costata.
Le grandi battaglie della prima guerra mondiale (eNewton Saggistica)
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