Le pietre di Pantalica
- Autore: Vincenzo Consolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
Vincenzo Consolo, scrittore siciliano, emigrato a Milano, appartiene alla lunga schiera di intellettuali e artisti che hanno lasciato la propria terra e si sono trasferiti al Nord.
Nato il 18 febbraio del 1933 a Sant’Agata di Militello, cittadina fra i monti Nebrodi e le isole Eolie, tra Cefalù ad ovest e ad est con Milazzo, negli anni Sessanta, periodo di profonde trasformazioni sociali (industrializzazione, emigrazione di masse meridionali, diffusione dei consumi, scioperi...), si rivela scrittore che racconta la Sicilia utilizzando una visionarietà sorretta dalla memoria storica per il rifiuto d’un presente deludente e tradito.
Alla rivisitazione della civiltà contadina si ispira il libro Le pietre di Pantalica (Mondadori, Milano, 1988), tripartito in Teatro, Persone ed Eventi.
Giuseppe Traina ha valutato l’opera:
Una tappa importantissima, che rivela ormai la sua natura ancipite di raccolta di racconti ma anche di rielaborazione di un romanzo mancato, che, forse proprio per questo, traghetta l’autore verso una stagione nuova che si apre, se la mia ipotesi è corretta, con gli anni Novanta. (Da “Paesi di mala sorte e mala storia”, Mimesis, 2023).
Le parti inedite, rispetto a quelle già pubblicate, erano state scritte presumibilmente tra il 1982 e il 1983, sottoposte dall’autore ad una revisione lessicale e fraseologica; felice appare l’inventività unitamente ad una sperimentazione linguistica generata dalle pulsioni espressive della sicilianità. Col ritmo di sequenze cinematografiche si leggano racconti che hanno la precisa indicazione dei luoghi: l’arrivo degli americani, il fotografo Robert Capa che ritrae pastori e contadini:
“Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo”
La cartolina di richiamo dopo l’armistizio Badoglio e le rivolte, le occupazioni delle terre incolte nonché l’intervento a fuoco dei carabinieri a Mazzarino, viene menzionato Filippo siciliano per la sua azione a favore dei contadini:
La terra a chi lavora! Questa terra incolta è terra nostra....
La consapevolezza della difficoltà a vivere l’oggi si fa prepotente, mentre il passato è sentito come vivo. Non a caso Antonino Uccello, demologo e studioso dei canti popolari, diventa testimone e custode della ruralità: la sua splendida personalità, che finemente viene descritta, ci dice di un destino storico irreversibile, ma anche della possibilità di conservare “l’antichitate”.
Nella prima sezione, “Filosofiana” è il titolo del racconto più avvincente e grottesco dove, in un paesaggio rurale di fatica e lavoro, il contadino Vito Parlagreco si abbandona a meditazioni sul senso dell’esistenza. La scoperta di un’antica tomba con vasi recanti figure disegnate, ed altri reperti (piatti, gìcare, lumere), lo mette in contatto con un erudito del paese. Entrambi si dirigono a Sofìana e sul luogo del ritrovo danno inizio al rito di esorcismo per impossessarsi della “truvatura”. La narrazione evoca la novella “Re porco” scritta da Francesco Lanza nel 1927 un anno prima della pubblicazione dei “Mimi siciliani”. Commenta Natale Tedesco:
Il contadino di Lanza ritrova una moneta d’oro, quello di Consolo il vuoto, il nulla; l’uno è beffato dagli uomini, da una donna soprattutto, l’altro dal destino, dalla condizione di sconfitta perenne dell’uomo; e la malinconia è più fonda, l’ironia è più acre, grassa alla fine, da farsa popolare.
Brillante il racconto “I linguaggi del bosco” che si trova nella seconda sezione. La narrazione muove dalla decifrazione di due fotografie riguardanti il camion acquistato dal padre dello scrittore che, mettendo a fuoco lo sguardo e la memoria, dilata la descrizione evocando episodi familiari. Vi si trovano la vita del bosco e delle bestie, gli usi e i costumi dei boscaioli, l’apprendimento del ragazzino con Amalia, una sorta di fatina selvatica che profondamente conosce i segreti dell’ambiente e parla solo agli animali “con quel suo linguaggio di suoni e di urla”. Lei, scrive Consolo:
Conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, illetterato con cui parlava alle bestie.
Trascina l’amichetto a piedi scalzi per “zolle, sterpi, rovi, cespugli di spino agrifoglio ampelodesmo” e lo inizia alla vita naturale. Nella medesima sezione si incontrano personaggi come Leonardo Sciascia (“cultore della razionalità, del pensiero chiaro e ordinato, amante dell’ironia e del piacere dell’intelligenza”), il poeta-cantastorie Ignazio Buttitta (Qui all’Aspra, nella sua casa, Ignazio è un Antèo che a contatto della terra riprende vigore), Antonino Uccello (Uccello si chiamava e somigliava a un uccello. Era piccolo e magro, la testa aveva minuta, sormontata d’un ciuffetto di capelli fini e bianchi...), Lucio Piccolo (Capii che la nobiltà diversa del barone era la poesia, in lui doppiamente magica. E fastosa sognante maliosa, di preziosa favola, di canto mai sentito).
Al posto di tante inquietudini, la contemplazione estetica ed estatica che gli produce l’archeologia greca gli dà quiete e lo rasserena.
A Selinunte la vista dell’area sacra di Malophòros, “circondata da mura, sul fianco della collina”, Consolo, in compagnia di Buttitta, prova la sensazione di un rapimento, d’una complicità, di uno smarrimento, di uno straniamento che lo proiettano nell’insondabile, al di là del tempo e oltre il reale:
A poco a poco non sentii più le parole di Tusa, guardavo Angelina e Ignazio, questi due giovani vecchi di ottant’anni passati […]. Persone reali, qui con me, su questa collina di Malophòros, in questo radioso mattino del primo giorno dell’anno, che pure a poco a poco svanivano, venivano prese in un vortice, precipitavano con me nel pozzo di Ecate, incontro alle divinità sotterranee, nel mistero e nell’oscurità infinita del Tempo.
Nella terza sezione si fa imperioso il bisogno di “girare” e “girare la Sicilia. Consolo, ogni volta che vi torna, vuole percorrerla in ogni direzione dalla costa all’interno, mosso dal bisogno di “rivedere vecchie persone, conoscerne nuove” e di sostare in città e paesi.
Il percorso, che sempre appare nelle sue opere sia pure nelle diverse ottiche dell’erranza, suggestiona quando da Siracusa si muove per i paesi degli Iblei:
Giunsi a Sortino e andai a ritrovare Blancato. Mi riconobbe e mi accolse con tutta la sua affabilità. Gli dissi che volevo andare a vedere Pantalica, che conosceva gola, per gola, conca per conca, grotta per grotta.
Paolo Carpinteri si chiama il pastore, che ora, vecchio, passa il suo tempo a intagliare il legno, a fare cuori collari chiavi bastoni zufoli, tutti decorati a motivi geometrici, a foglie solo arabeschi. Intaglia legno di bacolaro, di gelso nero, di salicone. Lasciò lo scultore il suo banco di lavoro, i suoi legni, le sue sgorbie e salì con me in macchina.
Ecco mostrarsi Pantalica, l’antichissima Hybla, in un tempo scandito dal mistero:
Ci arrampicammo su per sentieri di capre, entrammo nelle tombe della necropoli, nelle grotte-abitazioni, nei santuari scavati nelle ripide pareti della roccia a picco sulle acque dell’Ànapo.
L’immaginario di Consolo sta nell’integrazione di uomini e cose con l’ambientazione originaria, nell’andare oltre ai limiti cronologici, nel fondere mito e storia, nell’intrecciare poesia, sogno e realtà, nel sentire il problema della vita e della morte, nell’avvertire il dolore umano nelle varie cause e manifestazioni.
Le plurime direzioni s’intersecano con la quotidianità più inquietante e vicina al malessere e al disagio. Il “ritrovamento” di Comiso si rivela in una pagina fra le più belle e incisive della scrittura di Consolo in cui l’autobiografia si fa storia:
Arrivai nel pomeriggio in questo paese che sembrava folgorato dal sole, sembrava uno di quei vuoti gusci dorati di cicala che da bambino in campagna trovavo attaccati ai tronchi degli alberi. Deserti i vicoli, le strade, le piazze. Solo nella piazza principale, detta Fonte di Diana, alla breve ombra di uno steccato di bacchette infisse con aste sul selciato, erano seduti dei vecchi. Non erano né svegli né dormienti. Stavano, con le coppole in testa, immobili, gli occhi semichiusi, a “pampinella” […] Dietro la fontana, dov’era una fila di palazzi colore rosso antico, oro vecchio, era aperto soltanto il negozio del tabaccaio-giornalaio-libraio. Entrai in quella fresca, confortante caverna, in quel luogo d’ombra ristoratore. Compro i giornali e chiedo al negoziante, che mi scruta attentissimo, se c’è un libro di storia, un qualsiasi libro su Comiso. Contento l’uomo mi presenta un librone di 500 pagine dal titolo “Comiso viva”. Lo sfoglio e vedo che è una sorta di florilegio, un’atmosfera di scritti dei figli più illustri della città […] Compro il libro, vado a quel piccolo aeroporto appena fuori il paese dove si sta lavorando per l’installazione dei missili “Cruise”.
Negli anni delle crescenti tensioni fra Est-Ovest e dell’incombente minaccia proveniente dal mondo medio-orientale, Consolo non ignora l’incertezza dell’umano destino. Viaggiando poi da Comiso a Palermo non tace sul degrado ambientale, sulla paura, sulla furia omicida:
Palermo è fetida, infetta. In questo luogo fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo.
Esplora la città che in alcuni quartieri è:
Una Beirut distrutta da una guerra: quella del potere mafioso contro i diseredati, contro la civiltà e la cultura.
È la festa di Santa Rosalia; in tale occasione riconosce personaggi della politica locale, nonché il generale Dalla Chiesa. Vorrebbe avere da questi notizie su ciò che pensa:
Vorrei sapere quale impressione può fare a questo duro militare, a questo piemontese tutto d’un pezzo marciare tra due ali di folla in mezzo ai politici, ai prelati, ai maggiorenti di qui, davanti a questo carro trionfale d’una santa improbabile; essere immerso, per esigenze d’ufficio, in questa sfaldata, disfatta parata di baroccume isolano.
Girando per la Sicilia, Vincenzo Consolo respira l’atmosfera della vita isolana in un palcoscenico dove non sono assenti i suoni e gli echi di un territorio favoloso, pur essendo la sua una scrittura d’insoddisfazione. Con Le pietre di Pantalica egli ha scandagliato i luoghi sacri e profani dell’isolamondo con dichiarazioni sulla scrittura in linea di continuità con “Retablo”:
Solo che sogno o favola poco è diverso. Non è sogno tutto quanto si racconta, s’inventa o si riporta, per voce, per scrittura o in altro modo, d’una vicenda di ieri, di oggi o di domani, d’una vicenda possibile o fantastica? È sempre sogno l’impresa del narrare, uno staccarsi dalla vera vita e vivere in un’altra. Sogno o forse anche una follia, perché dalla follia è proprio la vita che si stacca e che procede accanto, come ombra, fantàsima, illusione, all’altra che noi diciamo reale. O della morte?
Il senso è di un confidente, intimo straniamento, di un respiro onirico rispetto a cose terribili o a perdite senza rimedio. Perché nella sua Sicilia si rivela una ricchezza perduta e una bellezza deturpata. Non è soliloquio il suo; nemmeno una fuga, volendo salvaguardare la quotidianità da oscure minacce.
Ci si trova dinanzi a una storia tanto amara quanto dolce dove pullula una scrittura dalla preziosa musicalità tra ironia e sapienza.
Le pietre di Pantalica
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