La Divina Commedia di Dante Alighieri può essere letta in molti modi, anche come un atto di accusa morale dell’autore nei confronti dei suoi contemporanei.
Il principio che governa la logica oscura dell’Inferno dantesco è infatti la Legge del contrappasso, una forma di giustizia punitiva, in cui al colpevole viene inflitta una punizione proporzionata al danno che lui ha arrecato in vita. Il mondo sovrannaturale costruito dal poeta fiorentino riflette dei solidi principi etici che l’autore immagina regolati dalle leggi del diritto: tra i versi della Divina Commedia opera una giurisprudenza atavica, secondo il principio di “delitto e castigo” capace di richiamare, talvolta in maniera raccapricciante, il diritto punitivo che regolava la società babilonese nel lontano XVIII secolo, ovvero Il codice di Hammurabi, meglio conosciuto come La legge del taglione di derivazione biblica: “Occhio per occhio, dente per dente”, per cui il colpevole è punito con l’identica lesione che lui ha provocato.
Legge del contrappasso: il significato nella Divina Commedia
La cosiddetta Legge del contrappasso (il termine “contrappasso” deriva dal latino: “contra” e “patior”, ovvero “soffrire il contrario”) è la massima espressione della giustizia dantesca; ma non è la sola pena cui sono sottoposti i dannati, per i quali la punizione peggiore era, da intendersi in senso teologico, la mancata visione di Dio denominata poena damni. Nonostante la poena sensus, ovvero la spesso terribile punizione corporale cui sono sottoposti i dannati secondo la logica del contrappasso, sia la più evidente agli occhi del lettore; in realtà era il secondo genere di punizione quella più sofferta, nonostante in apparenza meno avvertita.
Tramite i nove cerchi dell’Inferno Dante formula un vero e proprio manuale di diritto penale, mostrandoci un catalogo ragionato dei comportamenti umani illeciti e punibili e le loro conseguenze e, dunque, anche un testo di antropologia criminale nella sua articolata visione di peccatori e cospiratori, colpevoli di calunnie, tradimenti, diffamazioni morali, omicidi, atti di usura e altre lesioni. La legge del contrappasso, rappresentata attraverso la poena sensus, si esprime attraverso una ritorsione vendicativa condannando i colpevoli all’eterna ripetizione del loro errore; in questa continua reiterazione della pena, senza possibilità di redenzione, troviamo anche una forma di esorcizzazione del Male.
La “legge del contrappasso” che regola l’amministrazione dell’Inferno fu anche tra le invenzioni dantesche più criticate dai contemporanei dell’autore, che certamente si sentivano chiamati in causa. Dante infatti colloca nell’Inferno i suoi stessi concittadini, le persone che lui conosceva, impresa che non gli risultò difficile dati i tempi burrascosi in cui viveva, popolati da schiere di criminali irredenti fomentati da odi politici, religiosi, popolari. Non si limita, però, a collocarli e classificarli attraverso le bolge infernali: Dante li giudica, spietatamente, e li punisce cercando di sanare un rancore o, forse, un’esigenza tutta umana di verità e giustizia. C’è una sorta di compiacimento nella descrizione della poena sensus infernale; i tormenti corporali cui sono sottoposti i dannati vengono narrati con minuzia di dettagli, con una sorta di passione che non troviamo neppure nei momenti più celestiali del Paradiso. Indubbiamente è anche per questo motivo che l’Inferno dantesco ci affascina: troviamo in quei versi una carnalità esasperata che nelle altre cantiche è assente o affievolita.
Questa logica punitiva espressa in maniera veemente e colorita fu una delle principali ragioni per le quali Dante venne criticato dai suoi contemporanei, in particolare da Giovanni Villani che nella sua Nova Cronica definiva il Sommo Poeta come un “presuntuoso” e in particolare gli rimproverava proprio la fosca dimensione da lui all’allestita nell’Inferno, le forme “iperboliche ed eccessive” in cui aveva rovesciato il suo talento per creare un oscuro regno dove vigeva sovrana una sinistra etica correzionale.
Lascete ogne speranza o voi ch’intrate.
Con questa iscrizione, posta a sigillo della porta d’entrata dell’Inferno, Dante ci introduce nel suo luogo di pena che, a ben vedere, ha tutte le sembianze di un’istituzione carceraria. Tramite le parole con cui introduce l’Inferno, l’autore sta formulando una chiara dichiarazione di intenti: nessuno in quel luogo avrà modo di redimersi dai peccati commessi, la pena e il dolore saranno senza fine, ma ancor di più saranno “giusti” perché guidati da un principio retributivo (una specie di “giusto compenso”) nell’applicazione della pena. Questa è la visione che domina un principio di Giustizia guidata da un ordine perfetto che viene applicata nell’Inferno: il castigo dei dannati è meritato in nome di Legge suprema, al contempo divina e umana.
Proprio in virtù dei suoi studi, anche teologici, da perfetto uomo del suo tempo, Dante riteneva lecita la vendetta e infatti viene sublimata in maniera esemplare nel suo poema.
Ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa.
Questa espressione la troviamo nel diciassettesimo Canto del Paradiso in cui viene affermato il principio del Libero arbitrio, la “nobile virtù” intesa da Beatrice, ovvero la libertà concessa all’uomo che implica la piena responsabilità morale di tutti noi. Secondo questo principio proprio per il fatto che la volontà umana non è predeterminata, è giusto premiare le buone azioni e punire quelle malvagie. Nei Canti XVII e XVII del Paradiso Dante mostra il significato del proprio viaggio, come missione provvidenzialistica voluta da Dio e lo fa attraverso lo spirito del suo trisavolo Cacciaguida, che fu un combattente nelle Crociate, colui che tramite un’oscura profezia gli mostra il suo futuro di pena ed esilio ma comunque votato a un compito elevato, pari a quello degli eroi, ovvero riformare il proprio tempo grazie alla visione provvidenziale dell’aldilà. Le oscure profezie che Dante ha udito nell’Inferno, il raccapriccio suscitato dalla legge del contrappasso, ha quindi un fine etico: rivelando quanto visto nella profondità infernale il Sommo Poeta sarà un riformatore della propria epoca e un profeta di giustizia, poiché ha potuto sperimentare a fondo l’ingiustizia e il male che si annidano nell’umano.
Legge del contrappasso: esempi celebri nella Divina Commedia
Alcuni degli esempi più celebri della Legge del contrappasso nella Divina Commedia sono i seguenti:
- Gli Ignavi: coloro che nella vita non hanno mai compiuto una scelta, sono condannati a correre perennemente intorno a una bandiera, perseguitati da vespe ronzanti, mentre il loro sangue scorre a terra tra i vermi. Il contrappasso funziona letteralmente: poiché non furono mai attivi in vita, ora la condanna è quella di correre ininterrottamente.
- Non battezzati: sono confinati nel Limbo, in un’attesa senza fine. Il contrappasso fa sì che coloro che in vita non conobbero Dio, ora siano condannati ad attenderlo e desiderarlo senza speranza. Tra loro si trovano molti pensatori e intellettuali antichi, tra cui Socrate e Omero.
- I Lussuriosi: coloro che nella vita preferirono l’amore carnale a quello spirituale, come Paolo e Francesca, sono condannati a vagare sferzati da un eterno vento che mai si placa, allegoria della bufera della passione.
- I Golosi: sono puniti da una pioggia battente mista a grandine che violentemente li percuote mentre stanno distesi a terra e il demonio Cerbero li tormenta dilaniandoli. La pioggia segue la legge del contrappasso perché è l’unico nutrimento di cui possono cibarsi e rende insipidi i sapori di cui hanno goduto eccessivamente in vita.
- Gli Iracondi: sono condannati a mordersi e percuotersi senza tregua immersi in una palude, come in vita percossero ogni altri, ora agiscono contro sé stessi.
- Gli Avari: coloro che nella vita hanno esitato a spendere per un eccessivo attaccamento al denaro, ora sono condannati a spingere senza sosta un masso inutile, proporzionato alla quantità di ricchezze da loro accumulate.
- Gli Accidiosi: sono immersi nel fango, poiché in vita non seppero apprezzare la Bellezza e trarne profitto.
- Violenti contro il prossimo: gli omicidi, i tiranni, i ladroni, ovvero i peccatori della peggior specie sono confinati nel settimo cerchio e la loro pena consiste nell’essere immersi nel Flegetonte, un fiume di sangue bollente. Il livello di immersione è proporzionato al reato da loro commesso in vita.
- Violenti contro sé stessi: i suicidi sono tramutati in alberi, poiché in vita si separarono in modo violento dal proprio corpo. Le foglie degli alberi sono continuamente divorate dalle arpie, provocando ai dannati un’eterna sofferenza, che si esprime attraverso i lamenti e i sussurri di angoscia che si levano dai loro corpi tramutati in corteccia.
- Scialacquatori: corrono senza tregua inseguiti da cagne nere che non appena li raggiungono li fanno a brandelli. La loro nudità è un’allegoria di tutto quanto hanno sperperato in vita.
- I Bestemmiatori: coloro che sono stati “violenti contro Dio” giacciono supini e immobili sulla sabbia sotto una pioggia di fuoco: in vita scagliarono insulti contro Dio, in morte diventano loro stessi bersaglio. Nello stesso luogo si trovano anche i sodomiti (condannati a correre) e gli usurai (condannati a stare immobili).
- Eretici: sono condannati a essere sepolti in un avello di fuoco, dato che in vita vissero nell’errore e sotto una falsa luce. Tra loro si trovano Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti.
- Consiglieri fraudolenti: hanno il corpo avvolto in una fiamma appuntita, poiché in vita i loro consigli provocarono incendi e guai. Tra loro si trova Ulisse, colui che per fame di conoscenza si spinse oltre i confini del mondo conosciuto.
- Falsari: sono sfigurati da malattie ripugnanti, poiché in vita trasfigurarono la realtà per i loro loschi scopi, ora sono condannati a subire la medesima metamorfosi.
- Ladri: corrono nudi in mezzo ai serpenti e, talvolta, si tramutano in serpenti essi stessi. Così come in vita sfruttarono l’astuzia per i loro scopi, ora sono stuzzicati dai serpenti, animale simbolo d’astuzia.
- Traditori: nella zona Antenora si trovano i traditori, immersi nel ghiaccio, poiché in vita ebbero un cuore freddo che non conobbe pentimento. Si distinguono in base al loro peccato: i traditori della patria (tra i quali figura il Conte Ugolino) sono immersi nel ghiaccio fino a metà capo; i traditori degli amici e dei benefattori, sono immersi nel ghiaccio supini con il viso rivolto verso l’alto; i traditori dell’autorità politica o religiosa (tra cui Giuda, Bruto e Cassio) sono posti direttamente in bocca a Lucifero, che li dilania.
La giustizia punitiva della Divina Commedia è particolarmente emblematica dell’impianto allegorico dell’opera, che si rileva in alcune sezioni più di altre come nella scelta di ambientare il poema nel periodo pasquale. La Pasqua è una metafora fondamentale attraverso la quale leggere il viaggio di Dante nell’aldilà, che vuole essere anzitutto un percorso di redenzione dai peccati e un viatico di riscatto spirituale.
In quest’ottica la Legge del contrappasso perde la sua valenza feroce e punitiva e diventa emblematica rappresentazione della “mala condotta” degli uomini, causata dalla loro irresponsabilità e dalla “libertà del volere”. Pur nella sua atroce rappresentazione infernale Dante rimette sempre l’ultima parola agli uomini; le sue punizioni corporali sono un monito, un invito al pentimento, un appello etico alla facoltà propriamente umana del “libero arbitrio”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Legge del contrappasso: significato ed esempi nella Divina Commedia
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