Libro
- Autore: Gian Arturo Ferrari
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
- Anno di pubblicazione: 2014
“Crisi” (dal greco κρίσις, decisione) è un lemma inflazionato, antipatico, un vocabolo ormai persino svalutato di senso, una parola che non se ne può più. Quanto meno a queste latitudini - da mezzo secolo in qua - è il tormentone semantico che indica la vocazione impotente, masochista, di una società alla deriva, compiaciuta della sua deriva. Fateci caso, a dar retta alle coefore mediatiche tutto è puntualmente, di volta in volta, (in) crisi: il mondo del lavoro, il cinema, la scuola, l’industria discografica, la famiglia, i giovani sono in crisi per statuto anagrafico, e anche Dio dall’alto del suo trono non è che se la spassi alla grande.
La “crisi” del libro ha da una decina d’anni rintracciato la sua figura castrante, il suo terrifico bau-bau: si chiama e-book, il fantasma immateriale che prima o poi (dicitur) farà la festa al vecchio “utensile” di forma e sostanza cartacea, la cui prognosi sarebbe, a dir poco, riservata. Nessuno legge più, l’editoria barcolla peggio di un pugile suonato, i così detti “lettori forti” si ingozzano di gialli e romanzetti rosa, gli interessi (?) dei più “giovani” (ma giovani fino a quando? E poi alla fine cosa sarebbero? Un corpus uniforme di personalità attestate sull’analfabetismo di ritorno?) gravitano verso i new media.
Per i solidi, affidabili, vecchi tomi-feticcio saremmo insomma agli sgoccioli, duemilacinquecento anni di storia gettati alle ortiche (senza contare i quarantasettemilacinquecento caratterizzati dalle culture orali e i cinquecento dei libri a stampa): dai raffinati papiri redatti dagli scriba agli ectoplasmi digitali 2.0, così si adempie la profezia di Fahrenheit 451 (no, non il profumo ma il romanzo di Ray Bradbury). Les jeux sont fait direbbero persino i francesi, meno catastrofisti e meno adusi che noi ai piagnistei. Giusto per ingannare l’attesa di questa morte annunciata, potremmo magari dare una sbirciatina (attenta) al “sampietrino” che Gian Arturo Ferrari ha fatto da poco uscire per Bollati Boringhieri: si intitola, molto efficacemente,“Libro”, e se da un lato è uno sguardo fermo sul “the day before”, sul giorno prima della fine (presunta) del volume cartaceo, dall’altro è una misurata apologia sul senso, la storia e l’ontologia del libro (quando, dove e perché è nato? Cosa ha significato la mutazione genetica della stampa a caratteri mobili? E, secoli e secoli dopo, la nascita dell’editoria industriale?).
Un excursus magnetico e (a tratti) poetico su passato, presente e futuro (sissignori, futuro!) dei volumi di carta, con il coraggio di sfatare anche la recidiva dei luoghi comuni (non è vero che in Italia si editano più libri che altrove, per esempio). Una “biografia” senza stucchevoli compiacimenti dell’oggetto (intellettuale) che più di ogni altro ha segnato la differenza tra noi e le altre specie viventi. Come scrive Ferrari nel suo volumetto-saggio:
“Dobbiamo molto al libro. La vita intellettuale degli uomini ha avuto nel libro il suo utensile più versatile e insieme il suo emblema più glorioso. La vita emotiva, interiore, degli uomini ha trovato nei libri quella comprensione, quel colloquio, quell’intima rispondenza a sé che non sempre gli altri uomini sono stati in grado di offrire. Un simile riconoscimento che confina con la riconoscenza non ci autorizza però né a perseverare nelle illusioni né ad avvolgere noi stessi e il libro in una nebbiosa retorica. Al contrario, possiamo usarlo – lui, il libro – per fare quello che gli è sempre riuscito meglio. E cioè indagare, ricercare, discernere e, alla fine, capire, conoscere. E preservare, salvare. Questo, infatti, è stato il suo ufficio, la sua fortuna e la sua gloria”.
E perciò lunga vita al libro, alla faccia dei nostradamus da strapazzo e dei libri digitali pure (tranquilli però, che la convivenza con i libri stampati sarà sempre possibile, fosse anche soltanto una convivenza da separati in casa).
Di seguito il video della presentazione del libro di Gian Arturo Ferrari, ospite a Che tempo che fa sabato scorso 17 maggio 2014.
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credo che la "crisi" sia benefica, ci costringe alla riflessione quando non è scaturita la sensazione della disfatta definitiva; pensateci: prima della parola è nata la comunicazione da tramandare, magari con un disegno sulla parete di una grotta preistorica. E’ quel bisogno di lasciare una testimonianza , di portarsela appresso e da distribuire in giro a chi vuole conoscere. Poi un editor ha sviluppato l’idea. Editor, scrittore e lettore sono pari, forse da un po’ di tempo ha prevalso la parola "mercato editoriale". Niente di male, ma il lettore forse non apprezza. Saluti.