Prima di iniziare questo articolo voglio premettere che non sono né una psicologa, né una neurologa, né una psichiatra. Perciò, tutto quello che illustrerò è solo frutto delle mie riflessioni, non suffragate da conoscenze o esperienze empiriche particolari.
In un mio precedente articolo ho evidenziato il legame fra la conoscenza delle parole e lo sviluppo dell’emotività.. Da questo testo vorrei partire per sviluppare un ragionamento più ampio, per descrivere quella che, a mio giudizio, potrebbe essere una - fra le altre - delle cause principali dei disturbi mentali nel mondo contemporaneo.
Le parole come veicolo dei sentimenti
Sintetizzo, prima di tutto, l’assunto del mio articolo precedente, ove ho affermato che la conoscenza delle parole sia un veicolo fondamentale non solo per lo sviluppo della ragione, ma anche dell’emotività. Nell’articolo, ho chiesto al lettore di immaginare una tavola, che riporta tutte le sfumature di un certo colore, ad esempio il rosso. Pensiamo di abbinare a ciascuna tonalità del rosso tutte le gradazioni di un sentimento positivo che una persona può provare verso un’altra. Il rosso più scuro e intenso corrisponde all’amore, sentimento che, man mano, degrada in stadi più lievi, che coincidono con le tonalità meno accese del colore. Quella più tenue equivale alla simpatia, ma fra amore e simpatia ci sono tanti stadi intermedi del sentire: attaccamento, trasporto, predilezione, affetto, benevolenza.
La mia tesi è quindi questa. Chi non conosce molte parole, non è in grado di sviluppare tutti i sentimenti che corrispondono a quei vocaboli, perché la parola non ha solo un significato semantico, è un viatico per pensare e per elaborare l’emotività. Senza parole non si pensa e non si provano emozioni, rimanendo fermi a uno stadio psichico primitivo, basato solo sui sentimenti estremi, nel caso dell’esempio, amore o simpatia. Non si arriva quindi a sentire e conoscere i possibili stadi intermedi, che pure sono fondamentali ed arricchiscono la nostra vita.
Prevengo subito un’eventuale obiezione. Per avere un’emotività complessa, non c’è bisogno di essere letterati. Infatti, anche un contadino analfabeta di inizio Novecento poteva avere un’emotività molto ricca, in quanto era a conoscenza di una fonte inesauribile di lemmi e parole: il suo dialetto.
Lingua e identità nella società contemporanea
Dopo questa lunga e doverosa premessa arrivo al dunque. La nostra lingua non è solo un mezzo per comunicare. Per il nostro inconscio, cioè lo strato più profondo e inconsapevole della nostra psiche, essa è anche parte fondamentale del nostro patrimonio identitario. Chi perde la lingua perde quindi le sue radici, la sua identificazione sociale. La grammatica e l’ortografia sono dei canoni che dobbiamo conoscere per conoscere la nostra lingua e, più conosciamo la nostra lingua, più siamo in grado di garantirci un’identità, prima sociale, poi individuale.
Viviamo in un contesto consumistico nel quale, come ha sottolineato più volte anche Pier Paolo Pasolini, è fortemente diffuso il feticismo delle merci, che ha fortemente contribuito all’omologazione di massa. Tuttavia oggi si assiste a un aggravamento di questo fenomeno, per via della perdita della conoscenza della nostra lingua, non compensata, come avveniva in passato, da quella dei dialetti.
La comunicazione social, veloce e fugace, sembra non aver bisogno della conoscenza dei sinonimi e della varietà del linguaggio, in quando pone l’accento solo sulla cattura dell’audience, quindi sul sensazionalismo. Sui social predomina non chi si sa esprimere, ma chi colpisce di più a suon di slogan. Per questo motivo, molti di noi non sentono la necessità di conoscere molti lemmi per essere vincenti, in quanto in questa società, dove prevalgono le immagini, tale conoscenza non sembra servire. Al contrario serve, soprattutto alla cosa più importante: il benessere della nostra psiche.
Prendiamo ad esempio una persona emotivamente fragile. La sua psiche, già per certi versi compromessa, subisce un ulteriore contraccolpo per il fatto che la sua cultura particolare è stata cancellata dall’omologazione.
Dimostro questo assunto pasoliniano con un piccolo esempio. Due popoli culturalmente diversi dovrebbero anche ridere per motivi diversi. Il riso infatti è secondo me, come la lingua, un altro elemento particolaristico che contraddistingue un popolo. Io non rido per le stesse cose che fanno ridere un cinese. Con gli attuali mezzi di comunicazione globali di massa (per esempio la televisione) abbiamo imparato a ridere tutti per le stesse cose (per esempio, le puntate dei telefilm americani spesso contengono le risate finte in sottofondo, per far capire al telespettatore, e poi convincerlo, che quella scena è divertente).
Prima dei social, che oggi costituiscono il mezzo di comunicazione predominante, la persona fragile, nonostante l’imperante omologazione, poteva ancora resistere. Aveva la lingua che la contraddistingueva, oppure aveva il suo dialetto. Aveva anche il teatro. Ora non ha neanche questi elementi. Il suo “io” si trova totalmente disperso, e nei casi più gravi, se ci sono anche altri fattori a concorrere, può anche annichilirsi. E cos’è la schizofrenia, la più grave delle malattie mentali, se non un totale annichilimento dell’io, che si perde in una voragine senza senso?
Impoverimento linguistico e perdita di identità
Per fare paragoni più lievi, di cosa soffrono tutti quei giovani quando, andando dal dottore, dicono di non sapere dare un nome alla loro sofferenza?
Soffrono, a mio giudizio, di una perdita profonda di identità, dovuta anche alla perdita della lingua, che esprime il nostro io collettivo.
Sarebbe interessante invitare tutti coloro che soffrono, anche i casi più gravi, a un semplice corso di grammatica italiana, oppure all’approfondimento della Divina Commedia. Quanto bene farebbe alla nostra mente ristudiare la nostra lingua madre per riappropriandosi delle origini?
Lettura e scrittura sono quindi dei mezzi curativi, al pari dello psicofarmaco (a mio giudizio dovrebbero essere combinati). Nessuno può guarire senza reimpossessarsi delle parole, le nostre parole.
Sia ben chiaro. Io non sono contro i social. Il problema è che oggi sono diventati il mezzo di comunicazione preponderante, con le conseguenze che ho descritto. Ai social dobbiamo quindi affiancare anche i libri, il teatro, le attività sociali. Dobbiamo ricominciare a leggere le fiabe ai bambini.
Nel processo di guarigione di un malato psichico non può non aver posto anche la mitologia. Nei miti, molti studiosi e psicoanalisti, da Freud a Jung, hanno infatti intravisto elementi della nostra psiche, individuale o collettiva.
In un mondo di guerre e di violenza, solo le parole ci possono salvare.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Lingua e identità: analisi di un possibile legame fra uso del linguaggio e disagio mentale
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"Le parole come veicolo dei sentimenti": leggendo questo paragrafo ho subito pensato ai social e all’effetto (negativo) che hanno soprattutto nei più giovani che sono cresciuti con questi mezzi di comunicazione. Le generazioni precedenti hanno avuto un rapporto più intenso con l’uso del linguaggio.
Sono pertanto pienamente in accordo con le conclusioni dell’autrice: il disagio giovanile è sotto gli occhi di tutti, la maggior parte dei ragazzi sembrano agire non ragionando con il cervello ma usando comportamenti da branco, il che è una pericolosa involuzione.
Spero che questo argomento venga preso in considerazione da chi di occupa di educazione e questo interessante articolo possa dare validi spunti a chi di dovere per aiutare i ragazzi a crescere nel modo migliore e a diventare la nostra speranza per il futuro. Perché oggi come oggi, purtroppo, con questa gioventù (non tutta, per fortuna, ma parliamo comunque di una grossa fetta) il futuro ha tinte molto fosche.