Gianrico Carofiglio continua a presentare il suo nuovo libro, “L’estate fredda”, nelle librerie italiane. In uno degli ultimi incontri con i lettori, tra cui è ormai sempre più popolare, si è anche soffermato sul rapporto tra linguaggio e potere, un tema che lo scrittore ha affrontato in modo acuto e realistico, forte della sua precedente esperienza di magistrato.
Nei processi come negli atti giudiziari, nei procedimenti amministrativi, nella burocrazia, in tutti i luoghi dove si esercita un potere, si parla e si scrive una lingua incomprensibile ai più. Ciò avviene non per la necessità di esprimere concetti o eventi particolari; è invece necessario per perpetuare un potere che, in buona sostanza, è sottilmente antidemocratico perché in gran parte fondato sulla sua indisponibilità a farsi controllare, anche nelle modalità in cui si manifesta linguisticamente.
Norberto Bobbio diceva che la caratteristica fondamentale della democrazia è che il Potere sia esercitato davanti ai cittadini in modo che questi possano scrutinarlo. Se però il Potere in ciascuna delle sue varianti - dal potere politico al potere giudiziario, dalla polizia alla burocrazia - parla e scrive lingue incomprensibili, questa conditio sine qua non del metodo democratico viene fortemente compromessa.
Ciò avviene fondamentalmente per tre ragioni.
Per prima la cosiddetta pigrizia del gergo: quando si entra nel mondo degli avvocati, dei giudici o della burocrazia si dice subito che si deve imparare la lingua di quell’ambito. Per esempio ci sono espressioni come «denegata ipotesi» o «impugnata sentenza» oppure espressioni latine come «salvis iuribus» o «viribus unitis».
Ci si accorge che è una lingua facile da imparare e, soprattutto, che è una lingua comoda nella sua nebulosità; una lingua che sbriciola la precisione dei concetti li rende meno chiari.
Vi è una famosa frase che Blaise Pascal, in una delle sue “Lettere provinciali”, rivolge ad un amico, nella quale, alla fine del testo, si scusa per la sua lunghezza, dovuta alla mancanza di tempo per scriverlo in forma più breve. La sintesi e la chiarezza costano fatica mentre la nebulosità e il gergo specialistico sono comodi. Parlare in un modo diverso dal solito, in definitiva, costituisce uno sforzo non da poco.
La seconda ragione è il narcisismo. In una sentenza della Cassazione, in un periodo di 132 parole senza un punto, è presente più volte l’espressione «postulata connessione nomologica», con la quale si esibisce una conoscenza linguistica superiore.
La terza ragione è il Potere: si usa una lingua oscura perché in questo modo si evita il controllo sul Potere; in tal modo la lingua la possono comprendere solamente i sacerdoti e gli iniziati.
Occorre, quindi, per Gianrico Carofiglio, una ridefinizione degli schemi linguistici, per rendere il rapporto tra linguaggio e potere più limpido e trasparente. Un conto è la complessità ineludibile di alcuni concetti mentre altro è l’oscurità, non necessaria ma frequente e gratuita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Linguaggio e Potere secondo Gianrico Carofiglio
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