Lo spirito della parola
- Autore: Raimon Panikkar
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
- Anno di pubblicazione: 2007
“Un popolo che perde il suo idioma perde la sua anima.” (Pag. 74)
Solo una persona, parte integrante di tanti mondi, può spiegare al meglio lo spirito ecumenico.
Raimon Panikkar nacque da madre spagnola cattolica e da padre indiano induista, nella sua vita ha cercato di integrare la varietà culturale con una costante: il dialogo.
Lo spirito della parola (Bollati Boringhieri, Torino, ottobre 2007) è una raccolta di scritti, discorsi su come incamminarsi verso la pace. Panikkar conosce un’incomparabile maniera: parlare, discutere, non imporsi, cercare sempre una comunicazione. Per riuscirci abbiamo la lingua. Senza linguaggio la pace è complicata.
La partenza è d’obbligo:
“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.” (Giovanni 1)
Senza il Verbo non esiste Dio e non esiste vita.
Panikkar propone l’esaltazione della parola come forma di celebrazione umana. Non si usa semplicemente come scambio d’informazione ma per il rapporto interculturale, basato sul raccontarsi e ascoltare in modo semplice, umile, senza nessuna volontà a vincere.
Questo può avvenire perché, partendo da Giovanni 1, il logos ha origine divina, è lo stesso Dio a utilizzare il linguaggio per parlare con gli uomini.
La parola deve essere pura, limpida, cristallina come un valore primordiale, nata in concomitanza con Dio.
Pannikar rivaluta la figura della religiosità, rivitalizza la sua funzione: la religione è politica e sociale. È la fase del distacco fra parola e pensiero:
“Se la parola non dice solo ciò che prima è pensato, se non va solo a rimorchio del pensiero, ma dice ciò che l’Essere è e dicendolo lo manifesta, allora poniamo le basi realmente al regno della libertà.” (Pag. 30)
Questa è una condizione importante. Essenziale per l’uomo essere libero, perché il pensare non è vita, non è l’incontro con Dio, è qualcos’altro, costruito in seguito dall’uomo:
“L’Essere è essente, cioè parlante. E il pensiero ci dirà, dopo, che cosa è l’essere. L’Essere non è il Pensare. Il Pensare è un’operazione secondaria.” (Pag. 31)
Sia la parola sia il corpo hanno perso la loro forza intrinseca: “si è caduti, però, nel razionalismo…” (Pag. 25)
Dobbiamo eliminare il pensiero, la coscienza razionalista, lasciare la parola fluire liberamente in se stessa. Per mantenere la virtù comunicativa, la parola deve essere orale, la cultura deve essere parlata; lo scrivere appartiene ai tempi moderni, alla comunicazione disinteressata, distante, all’SMS:
“La parola però non è la scrittura, così come l’alfabeto non è la lingua.” (Pag. 57)
L’autore sull’argomento è spietato, arriva a elogiare l’analfabetismo, perché riconquista il possesso della purezza della parola, allontanandola dai suoi nemici. La storia del mondo non appartiene agli scrittori scienziati ma agli ignoranti oratori:
“L’asserzione scientifica è propriamente l’asserzione scritta. Uno pensa con stupore a Socrate, a Buddha e a Gesù che non hanno mai scritto una sola riga, o a Maometto che ha semplicemente trasmesso ciò che riceveva. Certo non erano scienziati. In definitiva la scienza non ha bisogno di parole: richiede solo segni.” (Pag. 100)
Ma chi è il nemico della parola? Perché soffriamo nell’incontrarci e nello stare insieme? Preferiamo il mondo del virtuale, quello inesistente, quello delle mille amicizie su Facebook, ma non abbiamo un amico da visitare e da incontrare.
Abbiamo disimparato il valore della parola, privilegiamo scrivere. Soprattutto ci sono milioni d’immagine a prevaricarci; gli ambigui, e soprattutto, veloci mezzi di comunicazione hanno alterato il contatto. Poi c’è il “mondo teocratico” (Pag. 59) vile controllore della libertà.
Il potere cerca di sorvegliare la fruizione e l’uso della parola come elemento comunicativo e dello stare insieme. Un’aggregazione di persone in una piazza è un movimento vivo energico vigoroso, mentre con le chat dei social, ognuno è solitario; non scambiano partecipazione ma distanza e indifferente.
Colto, preparato, fine filosofo, Raimon Pannikar entra nei mille aspetti della parola, inimmaginabili.
Come il merito della traduzione. Il traduttore esegue la penetrazione di due culture, rendendo un vantaggio per entrambe le culture. La scelta della parola corrispondente, non è un automatismo insensibile, come google translate, ma è una preferenza ben precisa per determinare un significato per entrambi e per migliorarsi.
Il mio piacere supera le alte perifrasi, i colti significati dell’autore. Preferisco la difesa della parola fine a se stessa.
“Perché si va perdendo l’uso del congiuntivo? Perché non possiamo più sopportare i periodi lunghi e le subordinate ci fanno paura? Perché troviamo confuse le apposizioni e la profusione di affettivi ci stanca?” (Pag. 60)
Io ci aggiungerei l’uso degli aggettivi. Smettiamo di essere sintetici, come ci insegnano gli esperti di brevità e di comunicazione istantanea. Mi piace dilungarmi, non limitare la scelta di un solo giudizio qualitativo perché non abbiamo tempo.
Il ritmo determina la scelta delle parole in una discussione. È il loro dolce suono a ispirarci nella scelta del termine successivo, perciò Panikkar ci insegna a guardare tutto dall’inizio, a prendere il nostro tempo, a rilassarci nel parlare:
“Egli era, in principio, presso Dio” (Giovanni 2)
Sono in tanti a ripetere a vanvera temi come il bisogno di parlare, dialogare, costruire la pace nel mondo. Pannikar ci detta dei principi fondamentali, non delle regole, ma l’elemento originale da cui partire: l’idioma.
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