Lo stadio di Wimbledon
- Autore: Daniele Del Giudice
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
In un’intervista apparsa anni fa sul web Daniele Del Giudice (nato a Roma nel 1949, scomparso a Venezia nel 2021) dedicò una riflessione molto incisiva sull’operazione che lo scrittore deve compiere sul suo materiale verbale, che ha i suoi capisaldi nella "moltiplicazione dei punti di vista e del linguaggio, l’uso non tradizionale dei tempi verbali e della struttura della frase". Si tratta di espedienti funzionali "per far parlare le storie, in quei momenti in cui è necessario scardinare la lingua perché mostri le cose, le dica veramente".
Coerentemente con questi principi, la lingua del suo romanzo di esordio, Lo stadio di Wimbledon" (Einaudi, 1983), sembra originare non tanto da una necessità di racconto, quanto piuttosto di riflessione metanarrativa. Una lingua che si fa misura di una disponibilità severa e al contempo umoristica del narratore verso la parola, nel punto esatto della sua incrinatura, che corrisponde fatalmente al momento della sua rivelazione.
Non è facile condensare la trama del romanzo. Del resto, la resistenza della forma-romanzo per Del Giudice è vincolata alla sua irriducibilità genetica e storica a un’unica forma standardizzata; al suo essere vitale solo a condizione di trasformarsi continuamente in altro da sé. Per questo la struttura del romanzo è intrisa di echi letterari e al contempo originale e spiazzante, e pur nell’apparenza di un timbro costante, di una calviniana "scrittura bianca", regolare e uniforme, si configura come un mosaico policromo formato da tasselli e materiali attinti dal romanzo d’avventura di stampo classico e dalla semiologia; dalla letteratura di consumo dei noir e delle spy stories e dalla letteratura aforistica. E con echi di antichi erbari, lapidari e bestiari in cui il mondo si scompone e si ricompatta in una varietà di forme ed esperienze narrabili che prendono la forma della memoria umana.
Del protagonista, alter ego dell’autore, non sappiamo il nome, ma possiamo ipotizzarne le ascendenze araldiche, che lo imparentano nel carattere al Wilhem Meister goethiano e a certi antieroi dei film di Wenders coinvolti in esperienze di viaggio sospese tra l’illuminazione e lo sperdimento. Sappiamo anche (a poco a poco, inseguendolo tra le linee della scrittura nel suo cammino ondivago e ostinato) che la meta del viaggio non è un luogo reale, tant’è che, a discapito della lampante geolocalizzazione suggerita dal titolo, il paesaggio inglese non è mai descritto, semmai evocato per lampi e improvvise fenditure di luce che ne attraversano la penombra dello sguardo; bensì un luogo della memoria, che sembra rarefarsi e allontanarsi proprio quando la meta si avvicina.
Questo luogo di memoria in realtà sarebbe un uomo, un letterato triestino, un bibliofilo sapiente e un dilettante di genio che all’anagrafe si chiamava Bobi (Roberto) Bazlen e di cui tutti sanno tutto e niente, e cioè che fu amico e mentore di Montale, che lesse molto e scrisse nulla. Il suo profilo schivo e appartato è pertanto non dissimile da quelli incisi in superficie sulle monete rare e preziose appannaggio di qualche privilegiato collezionista. È dunque per inseguire le tracce di questo personaggio (reale, ma talmente distante nella sua leggenda da parere inventato) che il protagonista, per riannodarne i fili di una vita sfilacciatasi e dissoltasi nell’invisibilità di una pagina rimasta bianca, intraprende il suo viaggio.
Un viaggio geometrico e visionario, millimetrico e sconfinato (come osservare al microscopio il frenetico viavai di una formica sulla superficie di una lama di coltello) enciclopedico e scarno. Un viaggio che somiglia a tutti i viaggi già narrati, da aedi e anonimi cronisti, e purtuttavia inaudito e imperscrutabile nel suo esito. Forse perché l’io narrante sembra a tratti un novello Odisseo alla ricerca della sua Itaca perduta, un capitano Acab all’inseguimento della mitologica balena, ma poi, nelle soste e negli inciampi, nei momenti in cui la trama, il senso stesso del viaggio, sembra definitivamente sfilacciarsi e disperdersi, appare piuttosto come un eroe ferito e disertato, come se un dio ostile lo avesse condannato suo malgrado allo sforzo e alla pena di raggiungere l’irraggiungibile, con un presentimento costante di resa.
Purtuttavia, come in tutti i viaggi, quello che conta non è la meta, ma il viaggio in sé, con i suoi percorsi e le sue soste, i suoi movimenti centripeti e centrifughi, le sue incoerenze e i suoi errori. E soprattutto coi suoi silenzi, dai quali, nutrita di dubbio e stupore, germina vitale la parola (e la scrittura). La caratteristica peculiare che accomuna l’io narrante al fantasma sfuggente della sua ricerca Bobi Bazlen, fino a renderli a un certo punto simpatetici, come due sagome sovrapposte e combacianti in rilievo l’una sull’altra, è un destino di incompiutezza. Essendo Bazlen morto da tempo, tutto ciò che il viaggio di ricerca potrà riportare in luce saranno nient’altro che schegge, frammenti di parole e di vissuto. E del resto, per quel che si può evincere dalle sue riflessioni e confessioni, anche il protagonista appare un uomo irrisolto, un’anima vagante alla ricerca di una identità definita.
Ma in questa incompiutezza, che in Bazlen si manifestò nel rifiuto della parola scritta, il protagonista rintraccia, quasi suo malgrado, invece i semi, i talenti di una vocazione per la scrittura. Una consapevolezza, a suo modo una fede, che ritroviamo espressa con grande acume autocritico da Del Giudice ancora una volta in un’intervista di qualche anno fa:
"Il talento è svuotarsi di tutto, è saper non essere niente in questi mestieri che hanno a che fare con l’espressione: devi essere nulla, devi sapere essere assolutamente niente, perché tu possa immaginarti come il filamento di una lampadina, come la radice di un albero, una formica, perché tutto attraversi; ti attraversino i linguaggi, ti attraversi la vita, ti buchi, ti perfori, ti lasci se non delle cicatrici, almeno dei timbri di francobolli di altri paesi, di altre nazioni. E dopo scrivi le storie..."
È come se il protagonista con il suo viaggio iniziatico chiudesse il cerchio che Bazlen aveva lasciato aperto, tentando senza riserve né patteggiamenti la via impervia della scrittura, percorrendone fino in fondo i sentieri, con il rischio di smarrirsi o di ritrovare, in un luogo intatto, la propria identità, giacché, come sentiamo dire al protagonista in una pagina del libro: "Scrivere non è importante, ma è tutto ciò che possiamo fare".
C’è insomma, in questa trama che sembra tutto fuorché la trama di un romanzo, il catalogo di tutte le risorse e le possibilità che restano alla narrazione: di "dire le cose", di "mostrarle veramente". Ed è un azzardo, ma anche un monito, una lezione che consuona con l’ispirazione delle Lezioni americane che Italo Calvino (primo lettore ed editore entusiasta de Lo stadio di Wimbledon) ideò poco prima di morire, sul finire dello scorso millennio, interrogandosi "sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologica e cosiddetta postindustriale", ma confidando "nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare, coi suoi mezzi specifici".
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