Il piacere di leggere e di riflettere; il dubbio e la leggerezza; la filosofia e la vita; Luciano De Crescenzo e la felicità di raccontare.
La notizia della scomparsa di Luciano De Crescenzo mi ha suscitato, oltre a una profonda tristezza, tante intermittenze del cuore. Una in particolare, che giustifica questa mia piccola nota.
È il ricordo di una splendida mattina di luglio di quasi trent’anni fa, trascorsa in una libreria cittadina che oggi non esiste più, a scegliere tra tanti volumi odorosi di stampa il meritato regalo per la promozione a scuola. Scelsi la “Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”, attratto dalla copertina accattivante e dalla fascinazione di quel titolo sornione che vagamente mi evocava in forma ironica e parodica il titolo di un altro libro e un altro filosofo molto serio e noioso, che aveva aduggiato i miei pomeriggi di studente liceale.
Impiegai meno di un pomeriggio a leggere quelle pagine autobiografiche e fu un godimento, la rivelazione di un modo di scrivere diverso, divagante e sapiente e ricco di una leggerezza, di un umorismo che stimolava il sorriso e una voglia nuova di capire, ma con un fondo sottile e pur tuttavia percepibile, di gravità, di malinconia (che avrei poi ritrovato in un altro libro di De Crescenzo, una piccola perla narrativa, intitolato “Zio Cardellino”; che risente di molteplici echi e suggestioni, tra Eduardo e Pirandello, eppure ha una voce, poetica e struggente, che è solo sua).
Mi sono rimaste impresse tante pagine di quella “Vita”: l’atmosfera familiare dei ricordi dell’infanzia, la corporeità sconfinata di una città-mondo, Napoli, un po’ nutrice e un po’ ruffiana, che da quel momento avrei sempre amato con un amore di lontano; il male della guerra e la criminalità, di cui si può tuttavia anche ridere; le prime punture aspre e tenere dell’amore e dell’erotismo e tanto altro ancora. Più di tutto a colpirmi fu però il sentimento della vita come maturazione, comica e drammatica insieme, di una consapevolezza di se stessi, che da quelle pagine traspariva e veniva per la prima volta a sorprendermi. Io sedicenne con poche idee confuse, innamorato di tutto e di niente e con un rimescolio di sogni e paure che mi vorticavano nel sangue e mi davano l’impressione di girare su me stesso come una trottola stupida. Fu leggendo proprio quelle pagine che pensai per la prima volta che la vita comincia veramente quando incontriamo una vocazione, una passione che ci avvince e ci lega perentoriamente a sé. Quel libro di ricordi e iniziazioni me ne diede la conferma e malgrado tutto non l’ho più dimenticato.
Era la storia un po’ folle di un ragazzo che diventa ingegnere e invece di aprire un negozio, con grande perplessità della madre e dei familiari si mette a lavorare con i computer in un’epoca ancora pioneristica in cui un computer era per i più una scatola appena un po’ più complicata. E come non bastasse ancora, uomo ormai fatto, l’ingegnere con gli occhi sempiterni da ragazzo buttava tutto all’aria, il "posto" , le certezze, lo stipendio, per mettersi a scrivere libri, a raccontare la filosofia. Una pazzia (che fa pure rima) se non fosse che i suoi oltre cinquanta libri e le gratificazioni di un vasto pubblico di lettori in tutti questi anni hanno autenticato la sincerità di quella vocazione. Un essere chiamati a fare ciò che unicamente (e indipendentemente dalle seduzioni del successo e della fama) sentiamo di dovere e volere fare.
Per tutte queste cose ripenso con gratitudine a Luciano De Crescenzo: per le ore di allegria e di riflessione. Per il dubbio e la leggerezza. Per la testimonianza appassionata, che è stata la sua vita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Luciano De Crescenzo: l’ingegnere scrittore che non dimenticheremo
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