Maria Favuzza
- Autore: Marco Scalabrino
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2011
Che opuscolo delizioso quello di Marco Scalabrino sulla figura e l’opera di “Maria Favuzza”, la poetessa nativa di Salemi (24 dicembre 1911), in territorio di Trapani, che scriveva versi in dialetto siciliano. Pubblicato dall’Associazione Jò di Trapani (2011), comprende due parti: nella prima con pennellate eleganti è tracciato il profilo; nella seconda, sono riportate cinque sue poesie, tra cui A Salemi.
È pertanto opportuno accennarla, dato che si riferisce a questa pittoresca cittadina della Sicilia occidentale. Le immagini sono fresche, vivaci, spontanee ed è nei primi due versi d’apertura che lei, a mo’ di dialogo, la presenta in una dimensione pressoché arcadica e sentimentale:
“O paiseddu, muntagnedda duci / c’hai l’aria frisca, li ciriddi beddi”.
Del resto, Salemi è in collina, dominata da un castello normanno:
“Sta turri chi s’affaccia, chi straluci / ridi a li casi”.
Nota per le “cene” di San Giuseppe (altarini addobbati e apparecchiati con ogni sorta di cibo tra cui l’immancabile pane, ove si consideri che un tempo era il frumento il frutto della dura fatica dei campi), ad esse la poetessa dedica la dolce poesia che chiude l’opuscolo. L’intento del suo poetare, oltre ad essere documentaristico sul folclore locale, immette in un percorso di arcana magia. Già dai primi versi, il lettore è informato che i preparativi messi in atto da alcune famiglie nascono da un voto, da una richiesta d’aiuto, da un bisogno di ringraziamento. Segue una lista di varie forme di pane e di addobbi che accolgono la coperta ricamata stesa sulla tavolata. È infine il rito ad aprire il pranzo collettivo. Tre i protagonisti della sacra famiglia: San Giuseppe, la Madonna, il Bambino Gesù che si siedono intorno alla tavola reale, mentre il pranzo, al quale partecipano vicini e amici, scorre tra incenso e vino. Usanza, dunque, di
“fidi, oduri, / grazii. Di fulcluri tramannatu, / di genti timurata”.
È alla tradizione della cultura agro-pastorale che si affida “Maria Favuzza” ed è con la finalità del ripescaggio o del risarcimento che Marco Scalabrino conduce il suo intervento, ponendo in evidenza la forza del dialetto che consapevolmente opera in lei nell’opera postuma “Muddicheddi” (“Briciole” in lingua, 1985). Con acume critico, parlando del titolo, egli afferma: “ritengo abbia inteso delineare l’atmosfera minimale che regola l’antologia nella sua interezza; quantunque, constateremo, i rimandi, le seduzioni, le prerogative travalicano poi di fatto quella esteriore etichetta”. Egli si riferisce alla sonorità dell’endecasillabo, da Ungaretti definito
“La combinazione elegante delle nostre parole”
all’uso di rime alternate, all’accuratezza e alla coerenza dell’ortografia. Marco Scalabrino si pone domande e ad esse tenta di dare risposte, estrapolando da osservatore neutro lessemi che costituiscono la spia di un microcosmo socio-affettivo. Qui è il messaggio, amorosamente laico di “Maria Favuzza”:
“avvolge carezzevole, elenca, nomina quelle cose, la sua penna le ferma, le scrive, le imprime sulla carta, nella volontà, nella responsabilità di perpetuarle, più che per sé per gli altri”.
Voce delicata la sua, che sgorga da corde vocali, umane, di canto; voce che risuona di lavoro e di stradine tanto ammalianti come se consegnasse vere e proprie icone allo sguardo del lettore:
“Nta na stratuzza funna e silinziusa, / c’è sciamu di picciotti ed alligria; / lu suli scinni a fari assemi un gniocu, / s’assetta a lu bastiuni e li talia”.
Impalpabili i commenti di Marco Scalabrino: aprono la porta alla meditazione, provocano il trasalimento, immettono nella dimensione del sentire dei siciliani; idealizzazioni e storia distante da quella evenemenziale.
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