Mi ricordo
- Autore: Georges Perec
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
La memoria individuale è bugiarda per accezione neuroscientifica, solo di quella collettiva, ancora ancora, ci si può fidare. Metti il ricordo dell’assassinio di Sharon Tate, o quello delle lottizzazioni selvagge al tavolo di Monopoli, mica facile enfatizzare senza scadere nella mitomania. Esistono ricordi che fanno parte del “vissuto” di una Nazione: vale per certi film, vale per le canzoni, per i programmi tv, gli uomini politici, il Subbuteo, lo sbarco sulla Luna, l’Idrolitina, brand diventati - di loro - meta-storia, paradigma, madeleine. O amarcord, se siete delle parti dell’Emilia e la dipendenza da social non vi ha stra-fritto il cervello.
Solo al fiammeggiante Georges Perec (Calvino lo definiva “sperimentatore inquieto, capace di risvegliare in noi i demoni poetici più inaspettati e più segreti”) poteva venire in mente di scriverci su un intero libro. Sui ricordi qualunque, intendo. Ricordi nudi e crudi, che hanno fatto la storia, propria e di una generazione.
“Je me souviens” (“Mi ricordo”, in Italiano) è quasi un cult suo malgrado, con alle spalle svariate edizioni, l’ultima delle quali uscita da poco in Italia per Bollati Boringhieri (la nitida traduzione dal francese è di Daniela Selvatico Estense). Una novantina di pagine per 480 flashback della memoria che abbracciano Stendhall e gli spinaci, la “strizza che avevo – quando ero in collegio – che mi lustrassero l’uccello col lucido da scarpe”, Rin Tin Tin e l’epoca in cui “era rarissimo vedere pantaloni senza risvolto”, Brigitte Bardot e gli incontri di pugilato. Quasi un cahier di libere associazioni, come si vede: filo rosso unico e solo l’accezione “qualsiasi” dei frammenti (niente di memorabile, di languoroso, di finto-poetico, di strettamente autobiografico, per capirci), capaci, però, di sollecitare un’emozione, ilare, tenera o malinconica che sia. Per dirla con le parole di Perec in persona:
“Seduto alla scrivania, in un caffè, in un aeroporto o in treno, cerco di ritrovare un avvenimento che non ha importanza, che sia banale, desueto, ma che, nel momento in cui lo ritrovo, scatenerà qualcosa”.
Vi avverto che è l’unica istruzione per l’uso di questo libro che l’autore concede, il resto è presentato in forma asettica, lapidaria, aforistica, senza pretese di lunga vita, pero: quasi dei tweet ante-litteram, mi verrebbe da scrivere, solo meno ombelicali e intelligenti. Si passa così dal richiamo mnemonico di un prodotto pubblicitario ai versi di una canzone, dal nome di un vip sottratto all’oblio delle cronache a quello di uno dei tre porcellini (Timmy nella fattispecie, gli altri dimenticati, chissà perché), lampi di ricordi inessenziali ma dalla forte connotazione evocativa.
Ciascuno - nel suo piccolo - può cimentarsi con l’esercizio semiserio proposto da Perec, ma attenti a prenderla sottogamba, che l’impresa può rivelarsi più ardua del previsto (esimersi dalla prova narcisisti patologici e poetastri della domenica incapaci di verseggiare aldilà del proprio naso). Muovendo dall’apparentemente inessenziale, dal minuscolo, dal frammentario, i ricordi di Perec approdano a una partitura suggestionante, capace di farsi memoria universale, poema epico e storia di costume insieme. Quando si dice genio.
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