Mito e realtà della Grande Guerra
- Autore: Non disponibile
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2020
Gli altri soldati come “fratelli”, la guerra “sola igiene del mondo”, il cuore “chiuso” davanti allo stravolgimento di ogni regola e condotta umana nelle trincee, in un territorio desolato delle menti sconvolto, più che dal macello quotidiano, dalla sofferenza interiore e dall’abbrutimento delle coscienze. La spiccata sensibilità dei poeti li condusse a reazioni diverse dalla massa dei combattenti, esplorate tra i testi che compongono un’antologia di saggi sul primo conflitto mondiale, Mito e realtà della Grande Guerra, a cura di Marina Della Putta Johnston, pubblicato nei primi del 2020 da Marsilio (176 pagine).
Un libro impegnativo e non per tutti, un contributo accademico di ricerca letteraria e sociale quello proposto dalla docente di letteratura italiana dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, dove si è stabilita dopo la laurea alla Ca’ Foscari. Raccoglie nove interventi di docenti, ricercatori, insegnanti. Gli ultimi quattro lavori sono in inglese, a sottolineare l’internazionalità di questa produzione antologica. Sotto esame innanzitutto i poeti e gli intellettuali, mobilitati nel conflitto come volontari (i futuristi), richiamati o coscritti. Lo straniamento, il dolore, l’impatto sul singolo, inserito in comunità di giovani uomini, nel contesto di realtà stravolta.
I contributi dei saggisti si soffermano sull’esperienza di guerra dei letterati e sul linguaggio usato per descriverla; sugli effetti del conflitto nei decenni successivi; su com’è stata ricordata, a distanza di anni, anche in altri Paesi.
La Grande Guerra sembra avere esercitato sugli intellettuali un effetto socializzante, specie per quanti tra loro andarono a condividere stenti e sofferenze in prima linea.
Nell’intervento di apertura di Fabio Finotti - docente in Pennsylvania, a Trieste e Pola - i poeti di fine ‘800, Baudelaire, Pascoli, Gozzano, che pur invocando il popolo nella scrittura si allontanano invece dalla folla, sono sostituiti dai cantori-soldati come Ungaretti, spinti dall’esperienza bellica a non rivolgersi più a una platea indistinta, ma ad aprirsi a una comunità di eguali. In divisa di fante della Brigata Brescia fin dai primi del conflitto, il grande ermetista parla apertamente di “fratelli” nel rivolgersi ai soldati e nel riferirsi a loro in lettere e scritti. Si firma “soldato” e sottolinea che lo sono anche Jahier, sottotenente delle penne nere e Rebora, pure alpino.
Per Ungaretti, quella militare è una condizione morale, non un fatto occasionale. Essere soldato supera l’essere scrittore, viene prima e lo determina. Partì volontario, partecipò ai combattimenti sul ciglione del Carso (a Sagrado, sotto il Monte San Michele). A Natale del 1915 era coricato nel fango, scrisse d’avere passato la notte in trincea, in faccia al nemico, che stava sempre più in alto ed era “cento volte meglio armato”.
Cristina Bonussi, docente di letteratura italiana nell’ateneo triestino, mette a confronto la parola di Ungaretti col silenzio di Rebora. Indimenticabile, del primo, la descrizione del compagno morto, con la bocca digrignata e le mani contratte, piena di una fratellanza sentita, pur nell’orrore straziante della notte passata accanto al “corpo massacrato”. Clemente Rebora, sul Podgora, non reagisce invece alla morte pensando alla vita, come fa l’amico Giuseppe, ma resta quasi pietrificato, incapace di dare un senso alla guerra:
"C’è un corpo in poltiglia / con crespe di faccia, affiorante / sul lezzo dell’aria sbranata".
Manca la comunione di Ungaretti col caduto, non c’è partecipazione, solo orrore, sgomento, isolamento.
Fabio Caffarena insegna storia contemporanea e s’impegna in un saggio sul volo di guerra e sul conflitto aereo, offrendo uno spaccato sociale degli oltre 5mila aviatori italiani addestrati durante la guerra. I piloti erano grosso modo in pari numero ufficiali (34,5%), sottufficiali (32%) e soldati (33,5%). In quota, persone di diversa estrazione hanno quindi condiviso le stesse esperienze. Vanno aggiunti gli osservatori, quasi tutti ufficiali per le competenze tecniche necessarie e i mitraglieri, quasi tutti soldati. Un complesso di oltre 7mila militari: 225 periti nei combattimenti aerei, 693 per incidenti e 71 per altre cause.
Sempre rispetto alla componente aerea, a eccezione di Baracca e pochi assi la condotta spesso eroica della massa venne oscurata dalla mitizzazione delle imprese aviatorie di Gabriele D’Annunzio, che paradossalmente non fu mai pilota, ma ingombrante passeggero a bordo di velivoli condotti da “fedeli compagni”.
L’analisi del prof. Caffarena consente di verificare quanto l’arruolamento in aviazione favorisse l’ascesa dalle classi sociali inferiori, fino alla fine della guerra e poco oltre.
Al netto della fatica di penetrare la lingua inglese in cui è scritto, irresistibile la curiosità di leggere il testo del filologo dell’Università di Pisa Fabrizio Franceschini sul linguaggio dei film a tema bellico, in particolare La Grande Guerra di Mario Monicelli, del 1959, con Vittorio Gassman e Alberto Sordi nei panni di un fante milanese e uno romano. Il grande regista ha colto il senso di quel conflitto: non uno scontro risorgimentale sorretto dall’ideologia patriottica ottocentesca, ma un enorme crogiolo in cui vennero mescolati uomini di radici regionali e dialettali diverse, male armati e per niente motivati, che hanno retto comunque alla prova e vinto la guerra, superando enormi difficoltà.
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