Nel nome dell’impero
- Autore: Ben Kane
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Newton Compton
- Anno di pubblicazione: 2017
“Varo, rendimi le mie legioni”.
Dicono che l’imperatore Augusto girasse come un pazzo nella reggia romana, urlando contro il generale caduto in un grande agguato dei Germani, nel quale erano stati massacrati 15.000 addestratissimi combattenti romani. La battaglia di Teutoburgo, del 9 dopo Cristo, è già stata raccontata da un Ben Kane in gran forma nel romanzo storico “Le aquile della guerra” (Newton Compton, 2016). Ora il bravo scrittore irlandese nato in Kenya offre il seguito di quelle vicende, nel secondo titolo della serie delle Aquile, “Nel nome dell’impero”, un robusto volume di 382 pagine, in piena diffusione di questi tempi a un prezzo sorprendente per un solido cartonato (euro 7,50 euro, mentre la versione e-book costa euro 2,99).
Il nuovo episodio non può che risentire della drammatica sconfitta nelle foreste germaniche, inflitta alla potenza di Roma da Arminio, capotribù dei Cherusci. Il centurione Lucio Cominio Tullo ha partecipato allo scontro infausto, è sopravvissuto e non riesce a dimenticare. Basta un niente per rigettarlo nel caos feroce di quei giorni di fango e sangue. Se chiude gli occhi sente ancora risuonare l’angosciante grido di guerra dei Germani dal folto degli alberi, il sibilo delle lance che trafiggevano scudi e carne, lo schiocco delle fionde, le urla di dolore degli uomini che morivano invocando le madri.
Tre legioni cancellate. L’aquila della sua era andata perduta e la Diciottesima era stata smobilitata, come la Diciassettesima e la Diciannovesima. I sopravvissuti erano stati distribuiti tra le altre legioni sul Reno. Per lui c’era stata l’umiliante retrocessione a centurione semplice, prima che Tuberone, tribuno senatoriale suo nemico, pretendesse il congedo con disonore.
Ora è profondamente cambiato, dopo quella dura esperienza. Il tradimento di Arminio ha modificato la sua visione del mondo e delle persone. Ora non si fida di nessuno.
Meno di duecento uomini, a parte quelli fatti prigionieri dai Germani, sono sopravvissuti alla battaglia oltre il Reno. Tra quei pochi Tullo e l’optio Marco Fenestella, trentanni di servizio nelle legioni entrambi.
Intanto Germanico, nipote adottivo dell’imperatore, è stato nominato governatore delle tre Gallie e della Germania. Li riconosce a Roma e non solo se ne infischia della norma che vieta ai reduci di quella sconfitta vergognosa il rientro in Italia, pena la morte, ma li arruola come suoi ufficiali per il ritorno in terra germana.
Nel 14 d.C., i due sono in un accampamento legionario, nei pressi di Ara Ubiorum, inquadrati nella Settima legione.
Uno sguardo anche al loro nemico giurato. Arminio è un uomo di corporatura massiccia, nel fiore degli anni, un viso più notevole che attraente, folta barba e capelli e neri, mento squadrato, occhi grigi e intensi. La sua lunga spada di cavalleria è un’opera d’arte, forgiata con l’acciaio migliore, abbellita da un’impugnatura di palissandro e un pomo d’avorio: erano molti i romani che aveva massacrato e tanti avrebbe voluto uccidere ancora. Il capo dei Cherusci trama sempre contro Roma. In primavera, Germanico avrà contro almeno ventimila nemici.
Nel 15 d.C. si appresta il nuovo scontro delle legioni contro Arminio, una sfida che vedrà Tullo protagonista, in “Nel nome dell’impero”. La grande battaglia è un momento eccellente della narrazione, quanto la visita sul luogo dell’imboscata di cinque anni prima, che Germanico vuole assolutamente effettuare, con la guida del centurione reduce.
Il lungo sentiero dell’agguato è segnato da innumerevoli scheletri umani. Non si avverte la presenza di animali, spaventati dai fantasmi che aleggiano in questo posto di morte, dice Tullo.
A marcire nel terreno ci sono lance germaniche, giavellotti spezzati, scudi interi e spaccati. Gladi sguainati o ancora nel fodero, ammucchiati come per essere portati via ma lasciati lì. Pentole di bronzo sfuggite ai predatori umani e ora verdi per l’esposizione all’aria, picconi dalle teste arrugginite, ciotole e piatti, incrinati, a pezzi, con i manici decomposti. Il litius di un indovino, senza più l’asta. Metà del fodero di uno scudo, col resto del cuoio smangiato.
Sono gli scheletri la cosa più sconvolgente, ossa sbiancate ovunque, un tappeto a volte tanto fitto ch’è impossibile camminare senza calpestarle.
Non si vedono resti di carri, la battaglia in quel punto deve esserci stata il secondo giorno, se non dopo, quando Varo aveva fatto abbandonare salmerie, civili e soldati feriti. Non c’era scelta o sarebbero stati massacrati tutti, anche i sani, dal primo all’ultimo.
Con commozione, Tullo scopre l’insegna di una coorte, nascosta da un caduto sotto il suo corpo. Significa che intorno a loro ci sono i cadaveri dei legionari allora sotto il suo comando, oltre quattrocento uomini, annientati da un nemico armato per lo più solo di lance.
“Ne ho finiti buon numero io stesso, perchè i guerrieri non li catturassero”.
Germanico approva, un bravo ufficiale deve prendersi cura dei tuoi soldati.
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