Noi, che fummo giovani... e soldati
- Autore: Flavio Rodeghiero
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2016
Altro che maggio radioso, altro che una Nazione in armi per realizzare il sogno risorgimentale: l’Italia che si affacciò con quasi un anno di ritardo nel primo conflitto mondiale era più costretta a indossare la divisa e schierarsi in trincea che contenta di farlo, quasi recalcitrante. Il contesto del Paese - giovane regno unitario ancora molto arretrato - è uno degli aspetti evidenziati nelle pagine introduttive di un lavoro sulla Grande Guerra nell’Altipiano vicentino e sui suoi caduti. A cura del docente, giornalista ed ex deputato asiaghese Flavio Rodeghiero, “Noi, che fummo giovani... e soldati” (Marsilio, 2016, pp. 203, euro 23,00) raccoglie contributi del curatore e di altri autori.
Gran parte del saggio è un lungo elenco di nomi, con paternità, maternità, luogo e giorno di nascita, località, data e causa della morte dei 784 nativi dell’Altipiano dei Sette Comuni, periti nella guerra 1915-18. Un’antologia di nomi di militari di Asiago e dintorni,
“per trasformare quelli scolpiti sulla pietra in ricordo umano, mettendo in evidenza storie di persone e di sofferenza”.
Nell’approccio all’intera pubblicazione, presentando il conflitto nel capitolo “L’inutile strage”, proprio Flavio Rodeghiero fornisce un quadro finora scarsamente considerato della condizione del Paese nel maggio 1915, al momento di cacciarsi in quella tremenda avventura che ci sarebbe costata 650.000 morti nelle Forze Armate (260.000 dei quali con meno di 25 anni), un numero doppio di mutilati e feriti, un costo economico devastante e vent’anni di dittatura fascista.
Non ci si lasci ingannare dagli altisonanti peana interventisti di Gabriele D’Annunzio sullo scoglio di Quarto e dalle rime travolgenti dei futuristi: al momento di varcare i confini alpini e carsici con l’Austria-Ungheria, metà della popolazione italiana era analfabeta e nelle zone agricole del Sud il tasso saliva a due terzi, mentre in Germania, Francia e Gran Bretagna l’alfabetizzazione era quasi generale.
È vero che intanto i prefetti ricevevano dai Circoli goliardici la richiesta di autorizzare la creazione di battaglioni universitari, sul modello dei volontari toscani del 1848 che si distinsero a Curtatone e Montanara. Lo stesso chiedevano molti movimenti interventisti. Erano gruppi marginali, che agivano in nome collettivo, invocando la presunta volontà del popolo di entrare in guerra per completare il progetto unitario, “liberando” Trento e Trieste. Ma domenica 21 febbraio 1915 si videro in qualche piazza anche manifestazioni neutraliste.
Quello che si può dire di questo andare e venire tra opposti fanatismi è che nel Paese interventisti e neutralisti rappresentavano comunque una minoranza, per quanto chiassosa e agitata (specie i favorevoli alla sfida bellica). Come del resto minoritari erano i cittadini “irredenti”, i residenti di origine italiana in Trentino, Sud Tirolo ed area giuliano-dalmata, che la propaganda nazionalista tricolore fremeva di riportare entro i confini della Patria italica, insieme ai loro interi territori e a qualche robusta porzione di superficie slovena e balcanica.
La prova di quanto affermato da Rodighiero? In tutta la guerra il numero dei volontari risultò inferiore a 11.000 uomini, contro le grandi masse volontarie delle altre nazioni. Solo dall’agosto al dicembre 1914 si arruolarono ben 300.000 tedeschi e nello stesso limitato periodo i francesi erano stati 30.000.
Nel ’15-’18, il tasso dei renitenti alle armi si mantenne in Italia su una percentuale alta, pari all’8% dei chiamati, giungendo a toccare il 17% nel Mezzogiorno, per le classi di leva dal 1896 al 1899.
La mobilitazione interessò i nati dal 1874 al 1899, coinvolgendo aliquote del 1900, senza impiegarle in linea. E qui viene sfatato un luogo comune: la guerra non la fecero soprattutto i meridionali e non subirono la gran parte delle perdite. Dei 5.000.000 di mobilitati circa metà (2.452.000) proveniva dalle regioni settentrionali, un quarto dall’Italia centrale e il resto dal meridione e isole. Il Nord pagò il 48,7% dei morti, il Centro il 23%, il Sud il 17,4%, le isole il 10,7%. Il corpo ufficiali subì al contrario un processo di meridionalizzazione: tra i 13.000 ufficiali di complemento usciti dai corsi di Modena tra il 1915 e il 1916, il 17% proveniva dalla Sicilia e il 12% dalla Campania.
Ma la guerra l’hanno “fatta” anche i civili. L’Altipiano dei Sette Comuni è l’unico luogo in Italia ad avere vissuto in prima linea tutti i 41 mesi delle ostilità. La popolazione venne dispersa in tutta Italia. Erano 35.736 profughi di confine, oggetto spesso di disprezzo o rifiuto perché parlavano un dialetto bavarese del XII secolo. In qualche caso vennero perfino trattati da spie, perché usavano la lingua del nemico.
Tra i caduti più giovani dell’Altipiano, Giovanni Sartori di Rotzo, 18 anni. Il più anziano è il colonnello Giovanni Rodeghiero, cinquantaduenne, L’età media: 24 anni.
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