Noi, i vivi
- Autore: Olivier Bleys
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Edizioni Clichy
- Anno di pubblicazione: 2019
Per niente facile scrivere di “Noi, i vivi” (Olivier Bleys, Clichy, 2019). C’è il rischio di sciuparne il senso ultimo, il pericolo di rovinare in qualche modo l’incanto perturbante di questo romanzo. E insieme la sua profondità.
“Noi, i vivi” andrebbe letto senza informazioni a-priori. Accolto come si accoglie un atto di fede: andrebbe letto e basta. Olivier Bleys è uno scrittore gigantesco e questo è forse il suo romanzo migliore.
Un romanzo dialettico, attestato sul limitare esile di sogno e realtà. Un noir metafisico di caratura mirabile, dentro cui passano vita e morte. Il senso dell’ineluttabile e quello della sfida. La natura poderosa e abbacinante della cordigliera andina ci mette inoltre del suo, inspessendo di meta-significati un romanzo che si legge tutto in qualche ora, ma che non si dimentica. Sono già a un passo dal rivelare troppo e allora la trama. Vengo alla trama al netto dei sotto-testi che ospitano il succo del romanzo. Jonàs è un elicotterista che ama profondamente la moglie e la figlia. Con loro vive a Uspallata, remoto villaggetto sull’estremo confine tra Cile e Argentina. Durante una missione di routine, fa tappa al rifugio di Maravilla, il ricovero più alto e isolato delle Ande: da lì finisce che non riparte più. Sorpreso da una tempesta di neve vi resta infatti bloccato e via via che passano i giorni, ogni tentativo di decollo per ritornare alla propria vita è ostacolato dai più disparati imprevisti. Con Jonàs, nel rifugio, si trovano intrappolati (ma non troppo) il guardiano e un misterioso ingegnere, un fantomatico rilevatore di confini, di nome Jesùs. I due sembrerebbero accudirlo in tutto e per tutto ma… Ma climax e finale a sorpresa non vanno anticipati: stra-ordinari entrambi, nel senso letterale della parola.
La scrittura di Olivier Bleys fa il paio con le stratificazioni (ontologiche, escatologiche) del racconto. Una scrittura densa, dal passo vagamente ipnotico, espressione tra le più significative della narrativa francese.
Un esempio soltanto. Il prologo della tempesta che blocca Jonàs nel rifugio di alta quota. Si trova a pagina 41:
Udimmo un tenero guaito. Il cane con il fondoschiena bloccato avanzava dondolando verso la vetrata. Appoggiò il muso contro il vetro, lo strofinò dall’alto verso il basso annusando la superficie fredda. Anch’io mi avvicinai. Dalla grande apertura, esposta a Nord, penetrava la luce di un altro mondo. Raggi dalla provenienza incerta – probabilmente i ghiacciai, e la luna più grande qui che in pianura, come se l’alta quota l’avesse avvicinata – diffondevano una fosforescenza lattea fino alla parete opposta. A mezzogiorno come a mezzanotte c’era lo stesso chiarore polare, bianco blu, che avvolgeva le mensole piene di libri, la tavola dove si cenava, il divanetto sommerso da un mucchio di pellicce, il tubo di lamiera che veniva fuori dalla stufa smaltata. Eppure, l’immagine delle montagne si offuscava a vista d’occhio. Le cime più alte avevano un berretto di gas nero calato fin sopra i prati. Quel che restava del cielo era inghiottito dall’enorme edema del temporale. I primi fiocchi erravano nel vento.
L’ottima traduzione dal francese è di Paolo Bellomo.
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