In occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, che si tiene ogni anno il 20 giugno, vi proponiamo in lettura un breve saggio di Hannah Arendt dal titolo Noi rifugiati. Fu pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1943 sulla rivista Menorah Journal, mentre l’autrice si trovava in esilio negli Stati Uniti. Il titolo originale scelto da Arendt era inglese: We Refugees.
Di recente, nel settembre 2022, è stato riedito dalla casa editrice Einaudi in un volume a cura di Donatella Di Cesare: una nuova edizione che ha sottolineato il valore profetico delle parole di Hannah Arendt, ancora incredibilmente attuali a oltre ottant’anni di distanza, come testimonia la Giornata mondiale del Rifugiato, istituita dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 4 dicembre 2001 in omaggio a tutti coloro che sono costretti a fuggire dalla propria casa, dal proprio paese d’origine, a causa di guerre o persecuzioni. “Rifugiato” è una parola che ha mutato valore nel tempo, oggi ci sembra una parola moderna poiché appare al centro dello scenario politico internazionale; ma Arendt ne aveva intuito la centralità già nel lontano nel 1943, quando fu costretta, suo malgrado, a sperimentare sulla propria pelle la vita da apolide. La filosofa aveva compreso che quella dei cosiddetti “rifugiati” era una comunità complessa che avrebbe, nel tempo, dato vita a un nuovo assetto mondiale:
I rifugiati, scacciati di terra in terra, reppresentano l’avanguardia dei loro popoli - purché mantengano la loro identità.
Il popolo dei cosiddetti “rifugiati” negli ultimi decenni è cresciuto enormemente, al punto da mettere in crisi le frontiere dell’assetto mondiale: viviamo in una società più cosmopolita, ma anche irreparabilmente divisa, lacerata da contrasti interni che diventano nodi aggrovigliati, irrisolvibili.
Interessante notare come Arendt avesse individuato con largo anticipo in questa condizione di “non appartenenza” (un rifugiato non è un cittadino, è un essere umano privato dei diritti politici), un nodo centrale del dibattito pubblico.
Un essere umano privato dei diritti può dirsi ancora un essere umano? Questa la domanda che la filosofa pone tra le righe, rivendicando attraverso la sua scrittura sapiente il diritto di avere diritti, la stretta connessione tra diritti e umanità, perché un uomo privato della propria dignità di uomo diventa un “invisibile”.
Un testo da leggere per comprendere meglio la condizione di rifugiati che, in questo preciso momento storico in cui ci troviamo in balia delle guerre e di precari assetti mondiali, ci riguarda tutti, nessuno escluso.
Chi sono i rifugiati: il pensiero di Hannah Arendt
Link affiliato
Hannah Arendt apre il proprio breve saggio parlando alla prima persona plurale, dunque usa il “Noi”, rendendo evidente sin da subito, con l’adozione retorica del plurale maiestatis, il valore politico del proprio scritto: non era una condizione che riguardava soltanto lei, era una condizione condivisa e, soprattutto, disprezzata da quanti vi si ritrovavano immersi loro malgrado. I “rifugiati”, tra cui la stessa Arendt, non si riconoscevano come tali, preferivano essere definiti in altro modo, come un malato che nega la gravità del proprio male:
Anzitutto non vorremmo essere definiti “rifugiati”. Fra noi ci chiamiamo piuttosto “immigrati” o “nuovi arrivati”.
La filosofa osserva che la parola “rifugiati” aveva cambiato il suo significato: si era soliti considerare un rifugiato chi era costretto a chiedere asilo per le proprie opinioni politiche, ora invece i nuovi rifugiati erano coloro che avevano avuto la sfortuna di giungere in un altro Paese privi di mezzi e di cercare aiuto in un preciso comitato.
Tra questa nuova categoria di apolidi figurava la stessa Hannah Arendt, ebrea tedesca negli Stati Uniti che dovette attendere più di diciotto anni per ottenere la cittadinanza americana. Le sarebbe stata data, infine, l’11 dicembre del 1951.
Sempre con quel “plurale maiestatis”, parlando di sé ma anche a nome di tutti, Arendt osserva:
Volevamo ricostruire le nostre vite, questo era tutto.
Quel verbo “ricostruire” implica una perdita, implica delle macerie. Lo sguardo della filosofa-scrittrice si sofferma sul concetto di perdita facendo un elenco di tutto ciò che ai rifugiati manca: hanno perso il lavoro, la loro famiglia, la loro casa, i loro amici e, con tutto ciò, la fiducia di poter essere “utili” nel mondo. Questa somma di mancanze può fare un essere umano? Arendt riduce la parola “rifugiato” nei propri minimi termini, individuandovi all’origine una lacerazione, ovvero la lacerazione della vita privata di un singolo individuo. Queste persone, giunte in un nuovo Paese come in una terra promessa, hanno avuto esperienza dell’inferno e sono sopravvissute, eppure qui, in questo nuovo luogo, Eden paradisiaco, tutti li invitano a dimenticare la loro vecchia storia e ad aderire a nuove regole, sociali, culturali, a rinascere, a reinventarsi. Anche in questa promessa infinita di futuro, un futuro così incerto, c’è, a ben vedere, un atto di violenza. Domandare a una persona di dimenticare il proprio passato significa chiederle di annullare una parte di sé.
Con la sua scrittura analitica, ma al contempo poetica, Arendt scava a fondo nella ferita, mostrando come può sentirsi una persona dopo che sono stati recisi tutti i suoi legami, dopo che è stata costretta ad abbandonare la propria origine, la propria storia, oltrettutto non per sua scelta, ma per necessità, per obbligo.
In quanto ebrea tedesca non praticante, Hannah Arendt viveva poi un doppio dramma: fu perseguitata nella sua terra natale sebbene non fosse religiosa, eppure fu liberata e accolta negli Stati Uniti perché era ebrea ed espulsa dalla Francia in quanto tedesca, quindi “straniera indesiderata”. Da questo duplice estraniamento, percepito sulla sua stessa pelle, la filosofa derivò una riflessione tanto politica quanto identitaria sul concetto di migrazione.
La condizione di rifugiata di Hannah Arendt
Nel testo, scritto di getto quando Arendt si trovava da qualche tempo in America, l’autrice passa dal “Noi” all’“Io” senza soluzione di continuità, identificando così una condizione collettiva quando profondamente personale e individuale. We Refugees titolava, come in un manifesto politico, eppure è proprio il suo, inestricabilmente legato al filo degli eventi, a rendere questo scritto struggente, palpitante, ancora vivo in ogni parola.
Allo stesso tempo, con acutezza critica, Arendt percepì che ciò che stava vivendo era un fenomeno collettivo e sociale di portata immensa. La nuova figura del rifugiato, nata negli anni Quaranta del Novecento con la Seconda guerra mondiale, rappresentava l’inizio di qualcosa senza precedenti. Per la prima volta il rifugiato non era l’esule politico, ma il semplice cittadino che veniva estromesso dal proprio Paese e si ritrovava senza casa, senza patria e senza diritti. Arendt pone l’accento su queste mancanze, ma anche sul legame struggente tra i cosiddetti “rifugiati” e la loro identità, la loro cultura, il loro passato. Nessuno di loro aveva scelto di andare via, vi era stato costretto dalle circostanze, anche economiche: lo strappo, lacerante, ancora sanguinante, era stato necessario per sopravvivere. Ciascuno sperava di poter sentirsi a casa nel nuovo Paese, ma era al contempo drammaticamente consapevole che non si trattava di “casa”: quel Paradiso cantato dai loro benefattori, quel luogo denominato “salvifico”, non era un vero approdo, anzi, era quanto vi era di più lontano dal concetto di patria. Arendt fu la prima a sottolineare come questa intima lacerazione portasse molti rifugiati a scegliere la via del suicidio, la disperazione spesso vinceva sull’ottimismo.
Hannah Arendt aveva raggiunto l’America da Marsiglia con il marito, dopo essere fuggita dal campo di concentramento di Gurs. Era giunta negli Stati Uniti il 22 maggio del 1941: identificata come “stateless”, ovvero apolide. Questa etichetta che le era stata data, questa sua nuova identità che in verità non ne forniva nessuna, divenne il tema centrale del suo ragionamento. In questo parola, “stateless”, Arendt individuò un tema centrale della modernità che racchiudeva in sé una contraddizione profonda. Può un essere umano non avere una patria, non avere diritti che lo difendano e proteggano in quanto appartenente della specie umana?
L’interrogativo proposto da Arendt - che visse in questa condizione di “stateless” per ben diciotto anni della sua vita - appare ancora oggi lacerante. Poteva comprenderlo solo chi, come lei, aveva avuto una visione di confine: era stato messo ai margini e poi reintegrato. Anche la condizione di rifugiato, nella visione della filosofa, è un crimine contro l’umanità, una violazione dei diritti, una ulteriore drammatica prova della “banalità del male”. Un uomo privato dei suoi diritti, della sua identità, non è un uomo, e se il sovranismo ha il potere di annullare l’identità umana e di identificarla con l’appartenenza a una Nazione, allora le nostre democrazie illuminate hanno fallito.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Noi rifugiati”: il libro di Hannah Arendt da leggere per comprendere la condizione di rifugiato
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo News Libri Einaudi Libri da leggere e regalare Hannah Arendt
Lascia il tuo commento