Non aspettare la notte
- Autore: Valentina D’Urbano
- Genere: Romanzi d’amore
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Longanesi
- Anno di pubblicazione: 2016
Appena tornata dalla libreria, con la mia tanto attesa copia di “Non aspettare la notte”, l’ultimo romanzo di Valentina D’Urbano, edito da Longanesi, sono indecisa se leggerlo o meno. Accarezzo la bellissima copertina, le dita rallentano sui caratteri in rilievo del titolo e intanto provo a convincermi ad avere pazienza: «Prima lo leggi, prima lo finisci. Prima proverai quel forte senso di vuoto che ha accompagnato la lettura di ogni romanzo, nato dalla penna di questa straordinaria scrittrice romana».
Mi riprometto di centellinare la lettura: poche pagine, pochi capitoli al giorno… Ma quando inizio a leggere, non c’è più una storia divisa in capitoli. Non ci sono più pagine da girare. C’è una vita, che mi coinvolge e mi avvolge come l’appassionato abbraccio in copertina, e io non posso fare altro che viverla. E ancora una volta scelgo il silenzio, per far meglio risuonare la voce di quelle emozioni, sensazioni, alle quali la penna di Valentina D’Urbano sa dare voce.
Siamo lontani dalle atmosfere della Fortezza, a cui un numero sempre più grande di lettori è particolarmente affezionato, portando sempre nel cuore Beatrice, Alfredo e la loro sofferta storia d’amore. Siamo lontani anche dal buio misterioso e carico di fascino che avvolge “Acquanera”, un romanzo tutto al femminile che fa battere il cuore e lascia senza fiato. Siamo però sempre nelle pagine scritte da un’autrice che non solo non si smentisce ma si conferma prepotentemente grande interprete della narrativa italiana con un romanzo sorprendente, da non perdere!
E così, sin dalle prime pagine non sono semplicemente presa dalla storia, sono dentro la storia e respiro il profumo della notte che avvolge un giardino e con esso la tensione, la paura per quello che potrebbe accadere, ma anche e sopratutto la speranza che qualcosa non accada.
“L’orologio sulla mensola segna le due e ventisei di una notte di maggio del 1987. Irene sveglia sua figlia, che si stropiccia gli occhi e cerca a tentoni l’interruttore della lampada. Angelica accetta di accompagnare la madre a fare due passi nel giardino. Irene è vestita bene: indossa pantaloni bianchi e una camicetta color pesca e si è messa sulle labbra un velo sottile di rossetto chiaro. Ha le scarpe spaiate, ma Angelica, quella notte, le scarpe non le guarda. Si accontenta di fissare sua madre in faccia, di vederla vestita e truccata, come una mamma normale.
Salgono poi in auto. Irene infila le chiavi nel cruscotto e le lascia lì. Accende la radio, mette la musica e abbassa i finestrini. Sorride a sua figlia. Angelica ha il vago ricordo del pianto disperato di un neonato, ha ancora addosso, soprattutto, la sensazione di sicurezza che le dava l’abbraccio di sua madre, il suo odore buono e, mentre Irene le parla di quanto sono stati felici in passato, si sente al sicuro e si lascia prendere dal sonno”
Chiudo gli occhi, pronta a quel salto nel buio che la scrittrice mi spinge a fare. Mi affido e soprattutto mi fido. L’ urlo mi muore in gola, mentre aspetto una luce che taglierà le tenebre, ridandomi il respiro.
E i miei occhi si aprono sorpresi dalla calda luce estiva del giugno del 1994. Sono trascorsi sette anni. Angelica è ormai una bellissima ragazza di vent’anni, ma non è più spensierata come un tempo. L’incidente in cui ha perso la vita sua madre l’ha segnata nel corpo e anche nell’anima.
Suo padre Enrico, brillante e famoso avvocato di Roma, infatti, non la riconosce più:
“se gli avessero detto che la ragazza che aveva portato a casa dopo l’incidente di sette anni prima non era sua figlia ma solo una che le assomigliava, Enrico Gottardo probabilmente avrebbe avuto il disperato bisogno di crederci” (p. 32)
La bambina che aveva cresciuto non c’è più. Al suo posto c’è un’altra persona.
“Straordinariamente intelligente e determinata, ma buia”.
E Angelica il buio lo cerca, perché non riesce più a guardare il suo corpo, coperto di cicatrici. Cerca, in ogni modo, di nasconderlo agli occhi di persone più o meno estranee. Cerca di nasconderlo anche al suo stesso sguardo. Indossa abiti lunghi e le camicette le coprono le braccia sino ai polsi.
“Nascondere i segni in faccia è più difficile. I buchi sulla fronte e sulle guance. I tagli sottili, quello che le spacca il sopracciglio sinistro, quello che si apre sul margine del labbro inferiore”
Angelica calca in testa
“un brutto cappello nero a tesa larga, che fa pugni con i vestiti, ma che assolve perfettamente alla sua funzione: sotto la sua tesa sformata, il viso rimane sempre in ombra”.
Uscire di casa però è uno dei compiti più angoscianti e penosi a cui la ragazza si costringe il meno possibile, “solo quando deve sostenere gli esami”.
La proposta di suo padre di trascorrere l’estate nella villa del nonno a Borgo Gallico è per Angelica un’occasione: può riposarsi dagli studi di giurisprudenza e vivere serenamente, nascosta allo sguardo degli altri, e soprattutto può finalmente sentirsi ed essere invisibile al mondo.
Ma nei romanzi di D’Urbano, così come nella vita, le cose non vanno come immaginiamo e né Angelica, né il lettore, possono immaginare che a vederla siano proprio gli occhi matti di un alto ragazzo moro, con la pelle scura di chi si abbronza facilmente, le spalle larghe e un cespuglio disordinato di capelli ricci.
Anche Tommaso ha vent’anni ed egli, invece, cerca di fuggire il buio a cui sembra essere condannato da una retinopatia degenerativa. Tommaso ci vede un po’ sì e un po’ no, nei giorni cattivi le cose lontane gli sembrano sbuffi di fumo e gli oggetti e le persone in movimento sono solo ombre. I suoi giorni neri sono sempre più numerosi dei momenti di luce ed è per questo che sua sorella gli ha regalato una Polaroid:
“Questa ti torna utile per quando arrivano i giorni cattivi, quando vedi tutto sfocato. Tu magari capisci che c’è qualcosa che vorresti vedere, ma in quel momento non riesci a metterlo a fuoco. Allora te lo riguardi dopo, con calma, quando ci vedi” (p. 36)
Tommaso non aspetta la notte a cui, come dicono i medici, è condannato. Tommaso cerca la luce, la cattura, la vive sperando che non abbia fine. Attraversa le strade di Borgo Gallico con un motorino sgangherato che emette lamenti agghiaccianti, simili a quelli di un cinghiale ferito, e arriva a Villa Gottardo. Arriva così nella vita di Angelica, sorprendendola mentre lei è a bordo di quella piscina, che suo padre ha fatto costruire per lei.
Immerge le braccia nell’acqua fino ai gomiti, e poi le gambe. Il tessuto sottile dei suoi abiti si impregna subito, sgocciolando a terra e sull’asciugamano. È così assorta da non accorgersi di quello che succede intorno, ma quando alza lo sguardo...
«E tu chi cazzo sei?»
«Ah, ma allora non sei un cane».
Un cane. Angelica si tirò su di scatto, allungandosi fin dove poteva arrivare. Il ragazzo la osservava in modo strano, piegando la testa da una parte e dall’altra, come se le stesse prendendo le misure per mangiarla.
«Te lo giuro, mi sembravi un cane che beveva». (p. 57)
Mentre la ragazza cerca di allontanarlo, Tommaso tira fuori dallo zaino la sua Polaroid, la solleva all’altezza del petto, e senza che lei possa fare nulla per impedirglielo, le scatta una foto. Una foto in cui Tommaso non vede cicatrici, ma solo minuscole macchie più scure che sembrano lentiggini e una linea sottile che le attraversa una guancia, ma che sembra più che altro un difetto della carta. Una foto in cui Tommaso ferma e coglie tutta la bellezza di Angelica, in un viso pulito, accartocciato in un’espressione imbronciata. Una foto in cui Angelica non ha cicatrici, forse proprio perché a scattarla sono gli occhi matti di un ragazzo che, a causa della sua malattia, ha imparato a non usare la vista per guardare il mondo e gli altri. Tommaso vede l’essenziale, aiuta Angelica a non temere la luce, fino a farle scoprire che mettendo da parte la paura possono succedere anche cose belle.
E Valentina D’Urbano ne fa accadere di cose belle in questo romanzo (innanzitutto lo ha scritto!), in cui affronta il tema dell’amore, della malattia, della famiglia, dell’amicizia, anche dell’accettare se stessi e della paura di vivere attimi di felicità. Descrive gli ambienti riuscendo a guardarli anche con gli occhi sfocati di un miope, i personaggi come vivessero in lei. Intinge la penna nei colori della vita e con un talento sempre più indiscutibile, con una scrittura impregnata di forza, passione, di una verità che non fa sconti, dipinge la sua nuova storia. Una storia che non cattura il lettore, ma che entra nella sua anima, facendolo innamorare di Angelica, di Tommaso, ma anche di Giulia, Tania e Marinella, e persino di quel buio che porta a vedere oltre l’apparenza, nella profondità del vero. E quando si inizia a leggerlo, è difficile fermarsi dopo pochi capitoli, dopo poche pagine, perché “Non aspettare la notte” non ha capitoli, né pagine: è una storia intensa, appassionante, nata dalla penna di una scrittrice, che sempre più, con profonda sensibilità sa guardare e scoprire gli angoli del mondo e dell’esistenza, e raccontarli al lettore con generosità e rispetto. E gli regala una vita in più, come solo i veri buoni romanzi sanno fare e per la quale mi sento di dire: «Grazie, Valentina!».
Non aspettare la notte
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