Non dimenticar le mie parole
- Autore: Franco Clivio
- Genere: Musica
- Anno di pubblicazione: 2011
Con “Non dimenticar le mie parole – Canzoni ‘sempreverdi’ nell’archivio della memoria” (Edizioni Angolo Manzoni, 2011), ritorna il libreria Franco Clivio, autore di canzoni e di libri storico-sociali sul Fascismo tra cui quel “Nati con la camicia” che ho recensito, non molto tempo fa, su SoloLibri.
Come recita il titolo, sono materia del volume le composizioni di musica leggera, precisamente quelle del Ventennio e dei primi quindici anni del dopoguerra, canzoni che non solo restano nella memoria delle persone di una certa età, cui il solo titolo o un verso richiamano la musica, ma, per lo meno le più famose, son conosciute anche da non pochi giovani.
Composto di 39 capitoli e di una pagina bibliografica, il libro si apre con “La grande torta” che traccia il piano dell’opera e narra, in particolare, dei diritti d’autore, delle cui “fette”, annota il Clivio, si riempie il piatto chi “ha, in genere, delle capacità non comuni e, forse, qualche referente importante”: quel “forse”, considerando come certe cose funzionino di norma, sottintende un più vigoroso “molto probabilmente”? Seguono i capitoli “Il paroliere” e “Rime” che ci fanno sapere che lo stesso Franco Clivio, sin dall’inizio degli anni ’60, è iscritto come paroliere alla SIAE e ci ricordano quanto sia banale, o peggio, la maggior parte dei versi delle canzoni del tempo precedente l’epoca dei cantautori, dotati questi di “un nuovo linguaggio espressivo”; e però restano “sempreverdi” almeno talune delle canzoni del tempo che fu e memorabili i loro “autori e interpreti ai quali la musica leggera italiana deve riconoscenza, anche se molto lontani dai canoni attuali”.
Nei primi anni dello scorso secolo imperano le canzoni da cafè-chantant e tabarin poi, anni ’20 e ‘30, quelle dell’avanspettacolo, genere sgangherato questo, in cui s’esibiscono, oltre a fantasisti, comici e ballerine normalmente disposte a, per così dire, un secondo lavoro straordinario, cantanti ai primi passi, dei quali una parte diverrà famosa, tutti quanti, nel frattempo, quotidianamente affamati: spettacoli organizzati da impresari senza una lira. Agli artisti d’avanspettacolo divenuti famosi l’autore dedica, più avanti nel libro, un capitolo per ciascuno, tra essi Ettore Petrolini, Erminio Macario, Totò, Nino Taranto, Renato Rascel il “piccoletto”. Tuttavia non l’avanspettacolo, cui segue la più sofisticata commedia musicale, bensì la radio è il medium potente che lancia presso il grosso pubblico motivi e cantanti, persino più di quanto farà la, non ancor esistente, televisione; e, nel primo dopoguerra fino all’epoca del boom, sempre prima del fenomeno televisivo, il cinema contribuisce da parte sua a consolidare la fama di cantanti e autori di canzoni, grazie a pellicole musicali, come il Clivio ricorda nel capitolo “Canzoni al cinema”: trame semplici, di solito strappalacrime, interpretate da attori cantanti sulla scia degli americani Frank Sinatra e Bing Crosby, italici divi canterini come, con altri, Luciano Tajoli, Teddy Reno, Claudio Villa, quest’ultimo conosciuto come il “reuccio” della canzone per antonomasia: un artista basso di statura dalla voce potente che era idolatrato dai suoi moltissimi fan e, altrettanto fortemente, risultava antipatico a coloro che lo ritenevano un po’ troppo pieno di sé.
Di capitolo in capitolo, cogliamo le figure di musicisti, parolieri e direttori d’orchestra, famosissimi tra questi Cinico Angelici e Pippo Barzizza, e troviamo la citazione di titoli e di versi delle canzoni dai medesimi, rispettivamente, composte e dirette. L’autore non manca di collegare le diverse composizioni musicali a coevi fatti storici come, ad esempio, nel capitolo “Il ‘mal d’Africa’”, le ancor oggi notissime, anche perché richiamate senza eccezione nei documentari sulla politica coloniale del Fascismo, “Faccetta nera”, “L’Inno imperiale”, “Ritorna il legionario”. Intanto, sotto il mascherato nome di ritmo sincopato, ché il richiamarsi alla musica “negroide” americana è vietatissimo dal regime, iniziano a esibirsi “I signori dello swing: Rabagliati, Otto, Bonino”. Parallelamente, nonostante il Fascismo sia serioso, ecco le canzoni allegre e quelle umoristiche che Mussolini tollera perché “capisce quanto sia importante lo svago e il divertimento, dopo aver assolto, s’intende, ai doveri di lavoratore e buon fascista”: famosissime sono all’epoca “Bombolo” e “Lodovico”. Nel dopoguerra sarà invece cantata ovunque la brillante “Che musetto”, lanciata dal rinomato Quartetto Cetra, nota popolarmente sotto l’inesatto titolo di “Ciribiribin” perché recita:
“Ciribiribin, che bel faccin, / che sguardo dolce ed assassin,/ Ciribiribin, che bel nasin, […]”.
Nel 1951 “Nasce il Festival”, ovviamente quello per antonomasia, il Festival di Sanremo, che aumenta la notorietà di cantanti già conosciuti negli anni ’30 e ‘40 e ne lancia altri straordinari come Nilla Pizzi, Tonina Torrielli, e Domenico Modugno, voci poi amplificate radiofonicamente e, dalla metà dei ‘50, dalla neonata televisione che inizierà a trasmettere il Festival in diretta, accanto alla sorella radio. Il saggio si conclude, prima della bibliografia, con due capitoli, per così dire, meritocratici: l’autore dice quali canzoni, a suo giudizio, siano “Da bocciare”, e basti qui citare, pienamente d’accordo, la sdolcinata “Tutte le mamme”, opera, sottolinea il Clivio, di
“un mammismo sfrenato, oltre ogni limite” che oltretutto “dal punto di vista musicale […] è di una banalità assoluta, da quello letterario è un disastro completo”
; Tra le canzoni siano invece “da promuovere” egli richiama, per citarne una sola, la celebre “Arrivederci Roma” degli altrettanto celebri Giovannini, Garinei e Rascel, questi pure suo acclamato interprete.
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