Nottetempo, casa per casa
- Autore: Vincenzo Consolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2018
Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa (Mondadori, Milano 1992, in preparazione fin dagli anni Sessanta secondo alcuni studi critici), è stupendo per il complesso impianto narrativo, nonché per gli argomenti trattati con una lingua di arcaismi, di neologismi, di parlata locale e d’un singolare poetare. Ricchissimi gli ingredienti che mutano il reale nel fantastico-visionario mentre il pensiero immaginoso, che ha il suo fondamento in una sorta di maledettismo da cui viene la “sentenza atroce” (“siamo figli del Crudele”), si nutre di una condanna atavica, resa più angosciante dal sopraggiungere di malefici eventi.
È ambientato nei primissimi anni Venti del Novecento che segnarono il sorgere di un irrazionalismo, ha scritto Giuseppe Traina:
Come prodromo della rinuncia della libertà corrispondente al consegnarsi di un popolo alla dittatura. (Da “Paesi di mala sorte e mala storia”, Mimesis, 2023).
La valutazione dello studioso chiarifica l’attualità dello scritto:
Sicché, nel 1922, il romanzo storico-allegorico Nottetempo, casa per casa prende atto di un decennio abbondante di un dibattito culturale durante il quale, sancito “il tramonto dell’ideologia”, passati attraverso “il pensiero debole” e rassegnati alla “fine della storia”, gli italiani sembravano pronti, nel presago giudizio di Consolo, a consegnarsi a nuove forze politico-culturali – la Lega Nord e, di lì a poco, Forza Italia – che sull’irrazionalismo, dilagante ai “piani bassi” della cultura di massa, avevano tutto l’interesse di far leva per gestire un nuovo sistema di potere di marca sicuramente illiberale.
Cita il Nostro critico letterario l’importante avantesto del romanzo: “C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù” (in “Tempo illustrato”, 2 ottobre 1971; poi apparso in “La mia isola è Las Vegas”, a cura di Nicolò Messina, Mondadori, Milano 2012), in cui Consolo mostra il precoce interesse per il soggiorno cefaludese di Aleister Crowley, non privo di preoccupazioni:
Anche oggi i maghi, il misticismo, il floreale, le droghe, l’irrazionale sono tornati di moda. Oggi rigurgita ancora il vecchio fascismo e nuovi fascismi sono sorti. Che ridicoli topolini partoriti dalla montagna, come diceva Aleister Crowley, non ci preparino assurde tragedie.
Interprete del presente, di cui è testimone, attraverso il passato, stabilisce così un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, muovendosi nel solco del romanzo storico, seguendo l’esempio di Manzoni e di Sciascia consistente nell’osservare il presente indagando con acume critico il passato.
L’incipit è suggestivo. In un notturno lunare, delirando, un personaggio squarcia il silenzio delle tenebre.
Il licantropo è Giuseppe Marano:
Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ànsime, malinconie, rimorsi dentro le vene.
Vedovo reca con sé il dolore straziante per la perdita della sposa e anche la “memoria genetica” delle persecuzioni subite dagli antenati ebrei. Disperato:
Giunge al mare e vorrebbe gettarsi dagli scogli, ma lo raggiunge, l’abbraccia e lo salva suo figlio Petro.
Protagonista del romanzo: uomo colto e maestro elementare che vive nell’ambito familiare una condizione tragica di follia. Della famiglia, che ha beneficiato di un’eredità da parte di un eccentrico possidente locale, le figlie Lucia, la minore, e Serafina, la maggiore, presentano alterazioni psichiche. Serafina è soggetta all’immobilità corporale, all’autismo o alla schizofrenia catatonica; Lucia è affetta da psicosi maniaco-depressiva e in preda a un delirio paranoico. La novità a Cefalù, paese “spento” e “addormentato” (“Qui nessuno sa più cos’è l’arte, il piacere, la mondanità”) è testimoniata dalla presenza di appartenenti alla setta dei mormoni, secondo il barone don Nenè Cicio. Tant’è che le loro idee in tema di sesso trovavano applicazione in una sorta di “comune”.
Guidate dalla Grande Bestia, donne alte e straniere, inusitate e bionde attraversano il paese al suono ipnotico dei pifferi in un pomeriggio abbacinante e destano la sua curiosità, esteta dannunziano di provincia e fascista della prima ora. I loro riti orgiastico-esoterici, senza ritegno e a cielo aperto, fanno intanto presa su di lui e su alcuni notabili cefaludesi: personaggi privi di scrupoli, pronti a favorire la formazione delle squadracce nel momento in cui il Fascismo prende il potere. In tale ottica, l’ascesa del regime e la triste sorte dei Marano si fondono e si pongono come la rappresentazione del malessere della società.
Nel corso degli eventi Janu, uno dei personaggi principali dal puro istinto, “privo di pensiero, di volere”, ama gli animali con cui vive e sessualmente inizia Petro con le capre:
“Petro aveva imparato tutto dalla mandra […]. Avanti Janu, che aveva più di Petro un paio d’anni. E l’aiutò per questo, là alla mandra, a provare una volta con la capra”.
Le parole di Janu lo sostengono:
“Io la tengo”, disse “sta’ sicuro che non guardo… Meglio che niente, è cosa naturale....”
Lo scontro di due atteggiamenti contrapposti, culturali e morali, si manifesta nella descrizione di due biblioteche: l’una del defunto Michele Mandralisca, zio di Petro Marano, caratterizzata dalla presenza di autori illustri quali Leopardi, Dante, Pascoli, Tolstoj, Hugo e la grande narrativa ottocentesca.
E amava raccontare:
Le vicende, nell’inverno, torno alla conca con la carbonella.
L’altra quella del suo nemico, don Nenè Cicio patrizio di Cefalù, recante un coacervo di volgarità e di edonismo dannunziano. L’oltraggio si manifesta con una furia devastatrice: degli sconosciuti penetrano in casa Marano e frantumano giare, rovesciano fusti, trafiggono otri. La tradizione di antiche civiltà resta succube d’una irrazionale violenza del nuovo tempo.
È Petro ad avvertire il macigno della malinconia (“No, io non sopporto più, più dentro di me questo cotogno”), e già portatore del dolore dei familiari, si ritiene affetto da qualcosa:
Che era successo al tempo tangeloso dell’infanzia, una rottura, un taglio mai più rimediato.
Nel capitolo IV intitolato “La Torre” avverte di essere prigioniero:
Nella vaghezza sua, nell’astrattezza, nella sublime assenza, nella carenza di ragione, di volere, nell’assoluta indifferenza, nel replicare cieco, nella demenza, rivolge a un luogo solo la dura offesa, strema la tenerezza, frange il punto debole, annienta, Crudo o vile Nulla, vuoto vorticoso che calamita, divora, riduce a sua immagine, misura.
Muovendo dall’impotenza, si adopera a “tenere vivo nella notte il lume, nella bufera”; vuole lasciarsi dietro l’afasia, l’ululato del licantropo per riappropriarsi del linguaggio:
… aggrapparsi alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete.
Potersi perciò liberare dalla follia è il suo intento:
Come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo.
Commenta Traina:
Tra l’eco montaliana della bufera e quella pascoliana del ricominciare il mondo, e quasi con cadenze cerimoniali, Petro pratica, dunque, un linguaggio che terapeuticamente implica resistenza al dolore.
Girovagando per Palermo, incontra un corteo di operai e contadini. Egli ne resta indifferente nonostante l’amicizia con Cicco Paolo, mite uomo e suo amico socialista, la cui attenzione è per la misteria della gente. Petro conosce sì l’eterna fame di terra dei braccianti e la piaga del latifondo. Eppure profondo è il distacco dai conflitti sociali:
...Ma sembrava che tutto gli fosse giunto come un’eco, di lontano, come se fosse stato estraneo alle vicende degli altri, agli eventi di tutti, ai conflitti d’ogni giorno. Gli sembrava d’essere vissuto fino allora chiuso nella privata rete familiare, nel cerchio pauroso dei fantasmi, dei deliri, della pena, della segreta sua torre d’urla, di lamento, oppur del lenimento, della fuga con la lettura di romanzi, di poesie.
La politica gli è indifferente ed oscura sebbene leggesse i giornali socialisti; oscuro e pauroso gli appare il presente. A lui piuttosto destano interesse i romanzi ottocenteschi:
Quegli scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l’immagine più vera, più della politica che a Petro sembrava allontanasse dalla realtà, come i numeri e le figure della geometria verso l’astrazione, il generale.
Lasciamo al lettore la scoperta delle tortuose tappe attraverso le quali è descritta la catabasi nell’ora del “Golgota” e dell’ “abbandono”: dal rapporto con le sorelle al male familiare, all’assenza d’ogni senso nel raccontare il patimento della vita fino all’inquietante domanda sull’identità personale:
E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel silenzio.
All’oltraggio nella sua casa segue la reazione; poi la sua fuga pena il pestaggio e la galera. La crisi verso il vuoto provocata da una immane violenza è ormai in atto e ciò induce Petro a riflettere sul suo rapporto con Cefalù:
Conosceva quel paese in ogni casa, muro, pietra, aveva letto ogni sua storia […], l’aveva amato […]. Ora n’era deluso, disamorato per quello ch’era avvenuto, il sopravvento, il dominio che aveva preso la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà… Per tutto il male che gli era venuto, per quello che temeva.
Sotto falso nome approda in Tunisia da espatriato, rifiutando l’esilio al pari del compagno di viaggio: l’anarchico Paolo Schicchi. La sua scelta è di chi si considera
Solo un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto. Solo ad aspettare con pazienza che passasse la bufera.
A un certo momento, realizza un atto liberatorio: butta in mare il libro donatogli da costui, avendovi individuato:
La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze. Doveva sfuggire a Schicchi, a ogni altro. Nella nuova terra sarebbe stato solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto. Solo ad aspettare con pazienza che passasse la bufera.
Il pensiero va al suo quaderno di vecchi appunti. E pensa che avrebbe dato ragione e nome a tutto quel dolore:
Ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro.
Per Traina Leopardi e Calvino sembrano fondersi fecondamente entro la:
“Percezione della pena/destino individuale che Petro sviluppa nella possibilità di una risposta al dolore del mondo che abbia valenza collettiva”.
In sostanza è la letteratura a porsi come antidoto alla follia e al vuoto della storia. Specificamente la scrittura, malgrado abbia la sua dannazione nel rischio di precipitare e di sentirsi ai margini, incanta e solleva sul piano dell’immaginazione rispetto alla lucidità del ragionamento.
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