Dino Campana riprende metrica, lessico e stilemi di un sonetto di Petrarca (Pace non trovo) per comporre Pace non cerco, guerra non sopporto, un Salmo di solenne e straziante densità lirica, in cui l’accidia petrarchesca si scioglie in commossa contemplazione della pochezza umana e nel sentimento dell’Eterno, in cui trovare una speranza di salvezza e di rigenerazione. Scopriamone insieme testo e analisi.
Anche a Dino Campana (1885-1932), come ad altre personalità artistiche eccentriche e fuori dagli schemi, la singolarità della vicenda esistenziale (rievocata con un magistrale lavoro di documentazione e di compenetrazione empatica da Sebastiano Vassalli ne La notte della cometa, Einaudi, 1984) e la qualità inclassificabile di poeta unius libri hanno fatalmente riservato un’aura obsolescente di leggenda, enfatizzando la statura del personaggio (il “folle di Marradi”) a discapito del valore intrinseco dell’opera. Ancora oggi dei Canti orfici e della loro tribolata vicenda creativa ed editoriale si conserva la visione di una pianta rara e selvatica fiorita per un capriccio di natura tra i filari ben compartiti della serra letteraria; di una musica distonica e discordante nell’armonioso repertorio melico della lirica tradizionale.
I Canti orfici di Dino Campana
Il grado estremo di tensione espressiva, la libertà spinta fino al dereglement di lingua e prosodia dei testi (negli anni in cui il verso libero prendeva d’assalto la Bastiglia della metrica regolata) hanno avvalorato ancor più il pregiudizio, ridotto a schematismo, critico e mentale, di una poesia facile, sismografo fededegno del disagio psichico dell’artefice, che cerca l’effetto e il clamore a detrimento della giustezza e della misura. Una sorta di religione eretica fondata sul clamore e la spontaneità del sentire impulsivo, concresciuta nell’alveo della religione ufficiale del canone poetico, del poeta vate in auge soprattutto nella temperie ottocentesca di scuola carducciana, patriottica e risorgimentale, come espressione e formalizzazione del più alto pensiero intellettuale e civile nella sacralità irreprensibile di una norma che assume una rilevanza etica ancor prima che squisitamente estetica; e dunque di una normalità accettata e riconosciuta che dallo stile si traduce nei comportamenti, (per cui i “mores ” determinano la “lectio”, non viceversa).
Ciononostante, così come non può esistere un’eresia che non sia maturata con amore e spasimo, nei chiodi e nelle fenditure di una religione rivelata, nei suoi dogmi inscalfibili, allo stesso modo è impensabile la poesia di Campana al di fuori di un amore contrastato e inconciliato con una tradizione letteraria, attraversata con la vocazione e l’empito di un innamorato respinto piuttosto che con insofferenza da iconoclasta (vale anche per Gozzano lo stesso discorso, ma con modalità diverse, con maniere si potrebbe dire più cortesi e piemontesi…). Prendiamo ad esempio di quanto appena affermato un sonetto dei Canti orfici. Leggiamolo, ascoltiamo (la parola di Campana è voce anche in assenza di voce) Pace non cerco, guerra non sopporto.
Pace non cerco, guerra non sopporto: il testo del sonetto
Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati . Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran portoIn un gran porto pien di vele lievi
Pronte a salpar per l’orizzonte azzurro
Dolci ondulando, mentre che il sussurro
Del vento passa con accordi breviE quegli accordi il vento se li porta
Lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.O quando o quando in un mattino ardente
L’anima mia si sveglierà nel sole
Nel sole eterno, libera e fremente.
Analisi della poesia
Il confronto con Petrarca
Risulta evidente fin dall’incipit la concordanza e la fioritura, per gemmazione, dalla radice di un celebre sonetto petrarchesco, Pace non trovo e non ho da far guerra. Verrebbe da immaginare per un attimo il poeta dei Canti orfici nella posa assorta e composta del copista principiante, intento a riprodurre soggetto e caratteri di un capolavoro appeso alla parete di un museo... Dunque, qui Campana sta copiando Petrarca?
E del sonetto petrarchesco sembra riprendere tutto, con voracità irrefrenabile, come un affamato a cui non par vero, dopo lungo digiuno, di sedere da convitato a una tavola fastosa, gustandone le pietanze senza scartare neanche una briciola. Divora tutto, Campana: metrica, stilemi, tropi retorici, quelle parole così perfette e atemporali da sembrare eterne (e “oggetti eterni” le definisce infatti Gianfranco Contini nei suoi saggi petrarcheschi). Eppure, a neutralizzare l’impressione del calco, dell’esercizio di stile, basta il dettaglio di una parola, di un verbo.
Nella tematizzazione che scandisce l’incipit del testo campaniano, se il rema è lo stesso del modello (“guerra”), il tema cambia, drasticamente, e il verbo usato da Campana è ben diverso ( “cerco”, in luogo di “trovo”, che leggiamo nel testo petrarchesco). Un dettaglio? No, perché Campana, mentre scrive è immerso in un gorgo, di pensieri, immagini, impulsi e sentimenti che lo strappano all’atmosfera forbita del simposio letterario e compulsivamente lo trascinano via, lontano (parola ricorrente nel suo idioletto febbrile).
Non c’è tempo per coltivare il gusto, ma per inghiottire, assimilare, trasformare quel nutrimento di parole solenni in parole altre, in un’energia diversa. Non è più un banchetto, è un “fiero pasto”. Come se un furore dantesco, innescato da un bisogno di salvazione, di uscita dall’oscurità dell’inferno fuori e dentro di sé, prendesse vitalmente il sopravvento sui veleni suadenti ed emollienti dell’accidia petrarchesca, trasformando l’inerzia dello spirito in un velleitario (forse patetico) ma germinativo cammino di rigenerazione.
Quel verbo declinato al negativo mediante l’uso della litote (“non cerco”) è ben più di una variazione sul tema; è una professione di fede e una sfida: vale a dire che per Campana “trovare” è più importante che “cercare”. Come è detto nella Sacre scritture: “Tu non mi cercheresti se non ti avessi trovato” (una frase, tra l’altro, molto cara e più volte evocata da un altro grande irregolare della nostra letteratura contemporanea, Giovanni Testori).
Con la semplice permutazione del verbo reggente, tradendo fin dal primo accento l’antigrafo trecentesco, Campana modifica e stravolge il senso del modello, convertendo il tema del compianto, della voluptas dolendi, in tensione agonistica, in ansia di sconfinamento oltre quel limite , quell’impasse in cui, come in un autocompiaciuto circolo vizioso il testo petrarchesco è tutto conchiuso. “Agogno”, in principio di frase, ma rilevante in conclusione di verso, quasi in bilico si direbbe sul precipizio dello spazio bianco (e del Nulla: in fondo tra Petrarca e Campana c’è di mezzo un certo Leopardi) è l’espressione verbale fortissima che condensa e fa esplodere drammaticamente questo sentimento che è la colonna portante del testo campaniano, un bisogno di riconoscimento, di Carità (e quindi di amore).
Non possiamo accogliere nulla della vita, della realtà che ci circonda, sembra volerci dire Campana, se prima non veniamo accolti, da qualcosa o qualcuno che ci comprende, lasciandoci entrare come una nave tra altre dalle “vele lievi” in un porto sicuro. Per uscire dalla palude dell’accidia (ripensiamo a Dante, Inferno, canto VII) occorre sconfinare oltre i meandri della coscienza, che rispecchia unicamente se stessa nei suoi “canti soffocati”; forzando il limite dell’individualismo, del pensiero ripiegato su di sé.
Un viaggio, un azzardo non esente da rischi di naufragio, che conduca verso un’alterità che esiste oltre il pensiero pensato, e che nel testo si configura nelle immagini calde e invitanti dell’“orizzonte azzurro” e soprattutto del “Sole. Eterno”, contrapposto alla “nebbia” che pervade i versi precedenti.
Magone vs autocompiacimento
Se è lecito impiegare in un’austera analisi di un testo poetico il concetto di “magone” (al netto del sentimentalismo svenevole che la vaghezza del termine può suggerire), potremmo aggiungere che il testo campaniano ci appare tutto intriso da questo sentimento, in un miscuglio di tenerezza e furore, tensione e distensione, ineffabilmente sospeso tra disillusione e speranza, bestemmia e anelito di preghiera.
Il magone, contrapposto all’autocompiacimento analitico del modello petrarchesco, è la corrente ad alto voltaggio che attraversa e alimenta le parole di Campana. Mi spingo oltre: si avverte in ogni parola una fiducia nel valore salvifico della parola, nel suo nutrimento, spinto ad un tale parossismo da contraddire la parola stessa , quasi a spremerne ogni residua goccia di splendore, e di senso. Un evidente tradimento del modello petrarchesco è del resto evidente, a livello retorico, nella rimodulazione della figura dell’antitesi, strutturale nell’antigrafo, che nei versi di Campana acquista una funzione ben diversa. L’antitesi che in Petrarca profila con rilievo scultoreo la paralisi della coscienza, immobile e irresoluta nelle sue contraddizioni, prigioniera dell’accidia (revival simbolico e iconico della sublime rievocazione epistolare dell’ascesa al Ventoso) nel poeta di Marradi diventa l’architrave di un modo di ragionare dilemmatico: una contrapposizione di concetti che nell’immaginazione visionaria dell’autore sembra scavarsi un varco, forzare le pareti della prigione mentale per trovare una via di fuga, un’alternativa, un “sogno” che interrompa la staticità e la chiusura di un’esistenza senza sbocchi, riaffacciandola all’aperto (Sogno. La vita è triste ed io son solo).
“Il varco è qui?” si chiederà Montale, con una dose calcolata di scetticismo, quanto basta a edulcorare e comprimere quel germe di follia che in Campana abbisogna di emergere, di uscire, di suscitare a qualsiasi prezzo un attrito vitale con la realtà.
Un confronto con Daniele Del Giudice
Credo che ogni lettore incallito e onnivoro coltivi più o meno segretamente il vizio curioso di collegare tra loro libri e scrittori in apparenza (e forse non solo in apparenza) separati e distanti. Come se la memoria di un lettore fosse un arcipelago invisibile sulle carte geografiche o piuttosto un ripostiglio capiente dove poter custodire tutto ciò che si è riportato a casa dopo un viaggio, ammassando ogni cosa in quell’esiguo perimetro di spazio, con l’impressione di un caos che (parafrasando un celebre aforisma di Victor Hugo) potrebbe anche essere un Cosmo. Capita anche a me, di sovente; che leggendo le poesie di Campana mi sovvengano alla mente le pagine di un libro di racconti di Daniele Del Giudice. Il libro si intitola Mania (Einaudi, 1997), ed è la parola del titolo che sdipana il filo conduttore dei racconti, bellissimi, che sono tra le cose più belle e impervie lasciateci da questo grande scrittore recentemente scomparso, e nei quali questo concetto della psichiatria di rigo in rigo si dilata ed espande, modificandosi, alterandosi, scomponendosi o liquefacendosi come un corpo esposto ad una fonte di calore. Che è quel che succede (ecco l’analogia…) con la parola di Dino Campana.
A tal punto da chiedermi se la follia clinicamente accertata e scontata dallo sventurato poeta con anni di duro internamento nel manicomi non fosse, oltre o piuttosto che un “disturbo mentale ossessivo e uno stato di alterazione che coinvolge più sfere della personalità” (come leggiamo, per definizione, in ogni manuale di psichiatria che si rispetti), un modo diverso ed estremo di incamminarsi verso la conoscenza; un modo di delirare (ossia etimologicamente, uscire dai confini di un sentiero tracciato), di sconfinare, per trovare, semmai nello sperdimento e nell’abbandono, la trama di senso di un destino, l’unico possibile, in cui consistere.
Per gli antichi Greci la mania (“mainomai”: smaniare) aveva a che fare con il dominio del sacro; senza questa smania sarebbe stato impossibile uscire dai recinti dell’anima razionale e aprirsi all’incontro con i demoni, che sconvolgono la mente, è vero, ma spalancano abissi di rivelazione riservati solo agli iniziati. È ciò che avveniva nelle esperienze iniziatiche dei misteri, nei riti orfici, attraverso una modulazione reiterata di formule e frasi che a furia di essere riprodotte portavano a una condizione estatica, al momento in cui la mente si svuota e al contempo si apre alla visione rivelatrice.
Bene, io penso che la poesia di Dino Campana sia una forma altissima e unica di manifestazione di questa mania. Che le iterazioni e le anafore che contrassegnano il suo peculiare uso di scrittura, in ogni suo testo, ripetute fino all’ecolalia, alla trance, al momento estatico di chi scrive e (si presume) anche di chi legge, non siano soltanto automatismi di una mente sconvolta, ma espedienti e tecniche esperiti ed impiegati con lucida coerenza. E lo si riscontra anche nel sonetto che abbiamo preso in esame, basti considerare la ripetizione sistematica di parole chiave, ripresentate a cadenze regolari all’inizio di una nuova strofe:
“La nebbia ed il silenzio in un gran porto
In un gran porto pien di vele lievi”
E ancora:
“Del vento passa con accordi brevi
E quegli accordi il vento se li porta”
Poesia è dunque per Campana l’esperienza di un trascinamento, un essere portati: da qui all’Altrove, dal Sé all’altro, dal senso miserevole della pochezza umana al sentimento dell’Eterno in cui ogni sofferenza o mancanza trova la sua piena realizzazione e il suo compimento. In questo senso possiamo dire che il sonetto, più che un infedele rifacimento di un modello illustre, è da leggere e pronunciare come un Salmo originale, solenne e disperato; una preghiera incrinata, portatrice di una speranza assurda, irragionevole e pertanto autentica, di salvezza e di rigenerazione.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Pace non cerco, guerra non sopporto: testo e analisi del sonetto di Dino Campana
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