Padre terra
- Autore: Barbara Buoso
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Fernandel
- Anno di pubblicazione: 2024
Padre terra, l’ultimo romanzo di Barbara Buoso, è un’opera che si staglia nel panorama abbastanza stantio della narrativa veneta di questi ultimi anni come punto d’arrivo di un percorso di scrittura che ha già dato molti esempi felici della sua potenzialità espressiva, ma che qui offre forse il risultato sublime di un ripensamento e di una ricognizione che, senza riepilogare i tratti del passato, inaugura e sorregge una visione che è passaggio e conferma nel presente.
Due brevi incursioni etimologiche sul titolo che nell’accostamento lessicale smuove subito una serie di interrogativi e di interpretazioni. ’Padre’ deriva dalla radice del sanscrito pati proteggere e nutrire, ma anche da patis, custode, e dunque alla lettera colui che nutre, sostiene, perfino foraggio: tutti lemmi che sottendono un ruolo fondamentale all’interno della famiglia e della società.
’Terra’ è un lessema che deriva dall’omologo indoeuropeo per parte secca, disseccata, tersa o arida e quindi per estensione suolo su cui si cammina, materiale che contiene gli elementi naturali riconoscibili come vita e storia. Per questo la terra natia non è solo simulacro, non vive in sé e si comunica soprattutto attraverso la mano e l’occhio. È la mano che ara, che zappa, che guida, è la mano che coltiva, raccoglie, che percepisce gli anfratti rugosi, perfino taglienti e urticanti del suolo e cerca le parti più arrotondate, morbide e qui diventa perfino suono.
Padre terra diventa allora scenario mobile in cui si possono rintracciare i segnali di una variegata individualità interiore, di un inventario, (proprio dall’etimo invenio, trovo, ma anche scopro, recupero e salvo) che si svolge in dodici capitoli, sequenze che, a partire da titoli memorabili e tramite un sapiente montaggio contestualizzano il pathos degli eventi, raccontando la storia di Primo, Rosalba e Giovanni in uno scenario dominato dal colore di gerani rossi che spiccano dirimpetto alla loro casa e diventano ogni anno fonte di rinascita e di rivincita sul freddo dell’inverno.
Primo e Rosalba vivono il loro matrimonio come un vincolo doloroso gravato dall’infertilità, un trauma espiato davanti agli occhi di una comunità crudele che li addita e li dileggia, sia pure sottovoce ma in modo spietato. Preghiere, digiuni e riti (indimenticabile quello dell’Erbo divino in occasione della processione del Corpus Domini) non favoriscono il miracolo che i coniugi aspettano trepidando. Per questo si affidano ai riti magici di una strìa detta la Botanica, figura assai diffusa in quegli anni nei paesi e che aveva irretito tanti, la quale utilizzando un miscuglio di erbe sacre e di sangue mestruale (il rosso dei gerani è una spia evocativa) riesce a innestare la vita nel corpo dei Rosalba che resta incinta di un bimbo dagli occhi verderame, ma che partorisce morendo tra dolori disumani.
Le usciva dalla gola un barrito strozzato e perdurante che negli acuti somigliava a quello del falco che suo padre, quando lei era bambina, teneva prigioniero legandogli la zampa a un treppiede, e che si era dimenato fino a strapparsela.
Primo e Giovanni rimangono soli, ma la fermezza dell’uomo disperato si manifesta in tutta la sua eccellenza e sensibilità nel ruolo di padre attento, severo e sensibile che si dedica completamente alla crescita di suo figlio attraversando al suo fianco le tappe della sua giovane vita. Accanto a lui Giovanni cresce in totale sintonia con la natura che diventa parte essenziale della sua formazione e luogo di riconoscimento perfino della presenza della madre morta che a cinque anni evoca sparando in cielo le bombolette spray gettate sulla fiamma, convinto che queste sue marachelle fossero un segnale per lei, una richiesta di messaggio, la conferma della sua voce. La vita del ragazzo sarà messa ancora a dura prova e altri avvenimenti graveranno indicibilmente sul suo cammino.
Barbara Buoso utilizza qui magistralmente la sua voce evocativa, un intarsio di materiali adoperati come attrezzi per spiegare concetti e situazioni, un modulo che compare anche in altri luoghi del romanzo con tratti davvero esemplari.
Quelle parole gli ricordavano il vento cattivo di tramontana, o le nuvole minacciose che portano la grandine, o ancora i cani quando prendono la rabbia e gli esce la schiuma dalla bocca e si vedono le gengive rosse come il fuoco, che paiono draghi, e allora senti le schioppettate in campagna per spegnere le fiamme.
La scrittura di Barbara Buoso risponde a un tracciato che connota la scrittura delle donne e innova la tradizione perché nasce da pulsioni, riflessi, echi della propria identità e si dilata entro risonanze che svelano e coinvolgono l’assetto e le rappresentazioni della realtà che viene filtrata e riflessa in una forma che non coglie l’attimo qualunque, ma descrive la pienezza di ogni istante di vita interagendo, quasi in un cortocircuito, con il giacimento culturale che l’ha generata e spesso emarginata. Un approccio che non implica semplicemente un cambiamento di oggetto, ma impone uno sguardo differente alla storia che richiede la capacità di porsi in ascolto, di rimettere in discussione modelli, chiavi di lettura, prospettive apparentemente consolidate, per procedere oltre i rigidi confini di discipline e conoscenze canoniche, rintracciando e delineando una galleria che ha un carattere irriducibilmente carsico, non lineare se pur dentro un percorso di libertà e di emancipazione.
La sua scrittura sposta non solo l’attenzione su luoghi e oggetti cari alla sua appartenenza geografica e culturale ma anche il punto di vista complessivo, con uno stile e una grammatica che spezzano schemi consolidati trasformando ambienti e scenari in un ricco patrimonio che può essere rivisitato con orientamenti plurali ed eterogenei, lasciando ai lettori la facoltà e il gusto di analizzare motivi, caratteri, personaggi dentro un mosaico variegato, multicolore e dinamico in un incessante dialogo con il tempo del territorio e delle suggestioni che ne derivano.
Un affresco che in questo romanzo, dalla grafia simbolica e metaforica, si manifesta nell’immaginario che ricrea silenzi, frontiere, vuoti, vincoli, intagliandoli e tessendoli su una pagina che oltrepassa i confini dei racconti neutri trasformandoli in racconti desideranti. La sua produzione intera diventa allora un singolare arcipelago dove è possibile navigare senza dover fare affidamento a un percorso preordinato, cioè a una rotta prestabilita in partenza.
Per questo la sua presenza nella storia della narrativa veneta oggi diventa espressione di un cantiere aperto, mobile, sempre pronto all’acquisizione di nuove conoscenze. Perché la sua identità di scrittrice è una storia in cammino che poggia su pilatri trasparenti e voci familiari. E noi non possiamo che seguirla.
Padre terra
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