Nella Giornata Mondiale della Poesia, che si celebra ogni anno il 21 marzo, non potevamo non dedicare spazio alla poesia, con un incontro speciale: l’intervista di Alida Airaghi a Paolo Maccari.
Paolo Maccari è nato a Colle Val d’Elsa (Siena) nel 1975. Ha pubblicato Ospiti (Manni 2000, con prefazione di Luigi Baldacci - Premio Bagutta Opera Prima), Fuoco amico (Passigli, 2009) e Contromosse (Con-fine, 2013). Suoi testi poetici sono apparsi in riviste e antologie. Come critico letterario è autore di una monografia su Bartolo Cattafi, Spalle al muro (Sef, 2003) e di un volume su Dino Campana, Il poeta sotto esame (Passigli, 2012). Dirige con Valerio Nardoni la sezione poesia Valigie rosse del Premio Piero Ciampi.
- Qual è stata l’importanza, per la sua scrittura, dell’ambiente toscano in cui è nato e cresciuto?
È oggettivamente difficile stabilirlo. Intanto bisognerebbe restringere il significato di “ambiente”. Se si intende quello culturale, la Toscana, e segnatamente Firenze, sono stati per me importantissime. La nozione di toscanità – laddove significhi bozzettismo, arguzia bonaria, religione del ricordo addomesticato e ben composto ecc… – mi repelle. Repelleva, d’altronde, anche agli scrittori toscani che più mi piacciono e ammiro: Tozzi e Pea, per esempio, o certo Bilenchi, o Bianciardi. E quella stessa nozione, per arrivare all’oggi, ha indubbi avversari in toscani come Giacomo Trinci, poeta che unisce una sua assolutezza di canto con interferenze umorali della nostra contemporaneità, e in Attilio Lolini, che secondo me è uno dei più grandi poeti viventi.
- Attraverso lo studio di quali poeti e narratori si è avvicinato alla letteratura?
Non ho un percorso originale. Ho iniziato a leggere seriamente verso i quattordici anni, iniziando, come tanti, dall’Ottocento: Poe, Baudelaire, i Russi ecc…
- In che modo la sua attività di critico letterario influenza la sua produzione poetica?
Chi lo sa: non è lo stesso leggere liberamente o leggere con la prospettiva di rendere conto pubblicamente della propria lettura. Sono, si sa, due livelli diversi e non è detto che uno sia più profondo dell’altro. Come si depositi una certa modalità di lettura nella nostra memoria e nella nostra sensibilità è difficile stabilirlo. Poi, ho avuto la fortuna di impegnarmi professionalmente quasi soltanto su autori che mi piacevano, in alcuni casi – come Cattafi o Raboni – che amavo molto. A volte mi dispiaceva quasi doverne scrivere perché mi pareva di dover definire emozioni che avrei preferito lasciare in uno stato felicemente informe, come è spesso la sincera ammirazione, che lascia perdere le proprie ragioni e si contenta di se stessa.
- Di cosa si sta occupando attualmente, sia a livello professionale, sia creativamente?
Sul piano professionale, e dopo molti anni, di niente. Leggo quel che mi pare (se interessa, al momento Chiamalo sonno di Henry Roth: un grande romanzo che non conoscevo), prendo appunti che non mi serviranno. Non so quanto continuerà questa condizione, che in un certo senso mi spaventa perché asseconda uno dei miei peggiori e più disperanti tratti caratteriali, cioè la pigrizia. In astratto, mi attira l’idea di tornare a recensire o a scrivere brevi saggi sulla letteratura contemporanea. Per un periodo l’ho fatto: è stancante, ma restituisce un po’ il senso di un interesse autentico per l’esistenza, nel suo farsi e primo apparire, che è comunque vitale, al di là del panorama su cui il destino ci impone di posare gli occhi.
- Qual è la sua opinione sul panorama letterario italiano contemporaneo, e quali autori in prosa e in versi predilige tra i più giovani? Ritiene che i vari festival e saloni del libro abbiano una funzione positiva nel promuovere la lettura?
La prosa la conosco pochissimo e non so giudicarla. Vado un po’ meglio con la poesia, ma le poche volte che mi capita di parlare con amici informati davvero mi rendo conto che il mio è uno sguardo parziale e lacunoso. In ogni modo, posso dire che leggo volentieri alcuni miei più o meno coetanei, che tra l’altro sono risultati vincitori del Premio Ciampi poesia: Matteo Marchesini (di cui ammiro anche la produzione critica e narrativa), Andrea Inglese, Italo Testa, Francesco Targhetta, Azzurra D’Agostino. Molti altri poeti, anche qui a Firenze, scrivono cose interessanti (mi viene in mente tra gli altri, anche perché è uscito di recente con un nuovo libro, Marco Simonelli). Tra i più giovani, recentemente ho letto alcune poesie molto belle di Lorenzo Mari. Tra i cinquantenni, Paolo Febbraro, di cui sta per uscire un libro di racconti da Pendragon, lo seguo con partecipazione da molti anni.
In quanto ai festival e ai saloni del libro: non sono mai stato a un salone del libro, e non so valutare la sua efficacia nel promuovere la lettura, mentre quella dei festival mi pare limitata e soprattutto impegnata a evangelizzare chi è già un fedele devoto.
Siccome insegno a scuola, dovrei ora dire che decisiva è la scuola. Ma non sono sicuro nemmeno di questo. Vedo ragazzini che non leggono anche a fronte di grandi sforzi del professore e altri che leggono nonostante gli sforzi involontariamente contrari di un altro professore. Inoltre, guardo con sospetto al pregiudizio per cui l’importante è leggere, avvicinare alla lettura, abituare alla lettura, perché il lettore abitudinario dopo aver accumulato una libreria di paccottiglia finirà per avventurarsi nella lettura di Joyce o di Pound. Come non è vero che i consumatori di droghe leggere prima o poi passeranno a quelle pesanti, non è vero nemmeno che, in questo caso, debba avvenire il salto di qualità. Anzi, il più delle volte chi inizia male – se non è stornato da motivi di studio o da incontri fortunati – continua beatamente male.
- Crede esista un pubblico della poesia, oggi, o i poeti sono letti solo dai poeti?
Ogni tanto mi capita di incontrare qualche lettore di poesia innocente, che non la scrive e non ne scrive. Sono creature quasi leggendarie, che quando vengono avvistate sono cinte da uno stupore ammirato e incredulo. Si pensa che, sotto sotto, la loro immacolata scrivania abbia un cassetto con il doppiofondo, e lì riposino le prove peccaminose del vizio: fogli scritti andando a capo. Invece no: esistono, sono pochissimi ma esistono. E probabilmente ne esisterebbero molti di più se fosse incrementata la forma meno elitaria e autoreferenziale di diffusione della poesia, vale a dire la pubblicazione seria di opere poetiche, in collane accreditare, con un buon ritmo di uscita, con un’adeguata distribuzione e un investimento promozionale abbastanza convinto. Certo, detta così sembra un’utopia, ma ricordo un articolo di Raboni – uno che le regole del gioco editoriale le conosceva benissimo e dall’interno – in cui si diceva all’incirca questo: gli editori non credono nella poesia e per lei non si prendono nessun rischio, ne deriva che la poesia non si vende, pertanto gli editori ci credono ancora meno ecc… Sicuramente a invertire la rotta non bastano gli editori piccoli o medi che rappresentano le proverbiali eccezioni, né le operazioni strombazzate dei grandi che ciclicamente scaraventano in edicola i soliti classici. Ci vorrebbe un’operazione in forze, che contempli tempi medio-lunghi. Tempi completamente sfasati rispetto al nostro, ed ecco che si torna a una prospettiva utopica che non promette avveramenti. Ma non saremmo uomini di oggi se non lamentassimo la decadenza della poesia, il suo poco seguito, la sordità dei nostri contemporanei.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Alida Airaghi intervista Paolo Maccari
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