Paradossalmente e con affanno
- Autore: Maurizio Cucchi
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2017
Un doppio ritratto, quello che Maurizio Cucchi tratteggia nelle pagine del volume appena uscito da Einaudi, “Paradossalmente e con affanno”: e come tale, segnato sia dalle sfumature indulgenti sia dalle severe incisioni di cui si nutre qualsiasi auto-rappresentazione pubblica.
Il corpus più esteso del libro condensa quattro sezioni poetiche (e una prosa di turbata atmosfera kafkiana) scritte tra il 1963 e il 1969, e riproposte con lo sguardo affettuosamente complice di chi ricorda il ragazzo che è stato, e desidera recuperarne l’immagine “per incontrarlo ancora”.
Un Maurizio ventenne, intimidito e a disagio nel mondo, che si rifugia nelle biblioteche per immergersi nelle narrazioni e nei versi degli autori più ammirati, tentando di muovere i primi passi nella scrittura. Inclemente la severità con cui il giovane poeta si ritrae, nel suo “campo arido”, “in un groviglio di ombre”:
“Cuoci in pentola / giovine dabbene”, “A passo felpato / sgattaiola dall’uscio”, “E ora / ricomposto il quadro fioco che tu completi / abbottonati la giacca. // … Vedo bene / che hai saputo cancellare / l’ultima impronta di sicurezza / e privo di fascino / levando un poco lo sguardo / capisci”, “(La giacca non consente a me un andare disinvolto. / La malinconia / il senso di frustrazione malmenano i miei malcerti / desideri di sorriso)”.
Deluso da se stesso (dal proprio “volto assurdo assorto”, dal suo “occhio furtivo”, dalla sua riconosciuta “ironia fasulla”), il protagonista sembra oscillare tra l’attesa di una rivelatrice palingenesi, di un riscatto sociale o di una definitiva condanna e, al contrario, la volontà di una ribellione violenta, di una reazione esasperata che lo liberi dalla stagnazione in cui teme di affondare:
“Finalmente potrò soddisfare il mio bisogno / e munirmi di fucile a due canne. / Partirò alla caccia per le vie della città / brulicanti già di vittime innocenti. // Anch’io potrò dunque perseguire / con la modestia e la prudenza / che sempre mi contraddistinguono / la più faticosa escalation / uccidendo qua e là ma senza prevaricare”.
Erano anni di guerriglia sociale, di rabbia repressa o esplicita contro le istituzioni più paludate (familiari, culturali e politiche), di provocazioni morali, di inquietudini sessuali. Anni in cui nascevano sperimentazioni artistiche e letterarie di rottura nei confronti della tradizione: ma il giovane Cucchi pare assediato più dal proprio privato che dalla Storia, più introflesso nei suoi nodi irrisolti che proiettato in un futuro di speranza:
“Aspetto che un soffio gelido / si trasformi in spiffero / ed entri dalla porta chiusa / che mi vengano a pescare / con l’amo o con la mosca / o con la dinamite”.
Giustamente nella quarta di copertina di “Paradossalmente e con affanno” si sottolinea questo incrocio di sguardi tra mitezza e impeto, questo strabismo esistenziale e formale tra novità e conservazione, che viene ulteriormente evidenziato dalla seconda parte del libro, nella silloge prosimetra intitolata La sciostra. Qui Cucchi, ormai famoso e legittimamente sicuro dei propri mezzi espressivi, è ancora scisso, non tanto caratterialmente, quanto ideologicamente, tra presente e passato, nostalgia e rinuncia, adesione e rifiuto. Richiamandosi a un suo vecchio personaggio di nome Giuseppe (per gli amici “El Pinìn”), alter-ego popolare “con un bisogno crescente di viva frugalità, di ritrovata manualità a contatto diretto con le cose… Forse un solitario”, Maurizio Cucchi confessa la sua necessità di concretezza, di gestualità elementare, e anche di bellezza naturale, in un “mondo quasi arcaico, e quasi senza tempo”. Un mondo fatto di materiali contadini: “arnesi di lavoro, bustine di sementi, / il setaccio, qualche cassetta, barattoli incrostati…”, e poi sterpaglie, orti, carriole, tetti di lamiera, sedie bianche di metallo scrostato. Cerca quindi nelle sue passeggiate milanesi un approdo innocente, in periferia, lungo il Naviglio, lontano “dai luoghi delle decisioni”; forse una cascina, o meglio: una sciostra, come viene definito in dialetto un magazzino in disuso, dove fermarsi “senza nessuna volontà di senso”, a godere la pace campestre, l’odore dell’erba, l’acqua verde cupo del canale. Scoprendosi “minimale e individuo”, rifiuta la massificazione economica che ci rende tutti “ottusi, scossi / dalla sacra idiozia della moneta”, e in pochi versi piani, classicamente oraziani, rivela un’unica ambizione:
“Una sciostra, forse, / fra canne e sterpaglie, antico / magazzino di legna, calce e tegole, / e mia residuale dimora felice”.
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