Parlare bène. Appunti di dizione di un attore
- Autore: Dario Iubatti
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Graphe.it edizioni
- Anno di pubblicazione: 2024
La dizione, per quasi tutti, è indispensabile per un attore. Mentre noi altri parliamo, convinti di essere sempre comprensibili. Ma in un dormitorio per studenti universitari ci metti un attimo a capire se lo studente è calabrese o abruzzese. A volte sembra un gioco; in realtà sapere la dizione e usarla renderà il vostro esame universitario più chiaro e apprezzato. Stiamo esaminando il libro Parlare bène. Appunti di dizione di un attore scritto da Dario Iubatti (Graphe.it edizioni, 2024, prefazione di Luca Mannocci).
Per non parlare delle professioni che ruotano intorno alle Relazioni pubbliche.
La dizione è una materia in continua evoluzione, non è statica; pensiamo anche alle parole straniere che sono diventate di uso comune in Italia, soprattutto tratte dalla lingua inglese. Quindi chi trova noiosa la dizione, non potrà fare l’attore, ma nemmeno l’impiegato quadro alla Farnesina.
Certo è che soprattutto a teatro la dizione è indispensabile, non solo per farsi capire, ma perché l’uso delle parole colora un tono, dà intensità a una scena. La nascita dell’italiano non è stata la stessa in tutto lo stivale.
A tal proposito Iubatti scrive:
In rete si legge di una testimonianza che riporta che già allora (nell’Impero Romano ndr.), nel III secolo, un povero maestro di scuola, forse romano, se la prendesse con i suoi allievi invitandoli a non impiegare le deviazioni del latino parlato o volgare, ma a usare oculus e non oclus (“occhio”), vetulus e non veclus (“vecchio”).
L’autore scrive che il volgare prese il sopravvento con la caduta dell’Impero Romano. Ma soltanto per quanto riguarda la lingua parlata, perché la lingua scritta restava il latino. Fu San Francesco d’Assisi, nel 1224, un umbro, a scrivere il bellissimo Cantico delle Creature. Ma in realtà c’erano già poeti siciliani che scrivevano poesie in volgare alla corte di Federico II di Svevia. Allora perché si nomina sempre la Toscana? Semplice, perché le poesie siciliane e il Cantico di Francesco furono imitate dagli scrittori del Dolce stil novo e poi da Dante per La Divina Commedia. Poi entrarono nella lingua parole francesi e provenzali come “pensiero”, “onta”, “coricare”.
Che poi le contaminazioni avvennero nei secoli soprattutto a causa delle guerre, fino ai giorni nostri dove il linguaggio è zeppo di termini inglesi. Che bisogna pronunciare bene, sapendo che cosa significano. E parlare un inglese fluente in ambito lavorativo, pena doversi accontentare di lavori meno qualificati.
Quindi se una buona dizione fa la differenza anche in ambito lavorativo, per gli attori è obbligatorio avere fatto un corso di dizione. Sapere proprio le basi come il triangolo vocalico, dove le vocali sono sette. La A si dice a bocca aperta, la é chiusa più simile alla i, la è aperta come in bène, la ó chiusa assomiglia alla pronuncia della u, la ò aperta si pronuncia quasi come una a, poi la i e la u. Il libro infine diventa molto tecnico fino ad arrivare a dei brevi racconti finali che sono il compendio delle cose apprese.
Una postilla sul dialetto napoletano che sembra prevalere su altri dialetti e che viene portato in scena. Ma accade per il grande talento di Eduardo De Filippo nei drammi e nelle commedie con Peppino e Titina De Filippo, fino ai film di Massimo Troisi e le canzoni di Pino Daniele. Sembra un mondo a parte, ma non lo è, perché quasi ogni regione italiana ha avuto attori e attrici di eccellenza.
Parlare bène. Appunti di dizione di un attore
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