In queste ultime settimane, dopo l’efferato omicidio della giovane Giulia Cecchettin, si è dibattuto tantissimo sulle cause e sulla prevenzione del femminicidio, della violenza e della fragilità degli uomini e, in particolare, dei giovanissimi. Oltre il mondo dei mass media e della politica, sono intervenuti psichiatri, psicanalisti, sociologi, pedagogisti, criminologi, magistrati, qualche scrittore (Erri De Luca, Lidia Ravera), ma pochissimi insegnanti a dir la loro quando la scuola è stata individuata come l’antidoto alla violenza e alla violenza di genere.
La scuola, ancora una volta, è diventata nel pensiero di tutti un laboratorio educativo per tentare di arginare il male attraverso l’educazione sentimentale, che non può essere soltanto un’ora con psicologi e influencer, per dodici incontri annuali o tre mesi di corsi alle superiori per insegnare anche le conseguenze penali.
Il filosofo e scrittore Simone Regazzoni, allievo di Jacques Derrida, ha scritto sulla Rete un breve pensiero:
“Con l’ultima geniale trovata dell’educazione sentimentale (ma con i voti signora mia, e che siano durissimi, diamo dei bei 4 in ’bontà’!) che si aggiunge alle periodiche trovate in merito a una scuola in cui le ore restano sempre le stesse, si conferma l’idea devastante di una scuola come supplemento di formazione familiare nella forma di una piccola pedagogia edificante per bravi ragazzi. Di letteratura, di filosofia, di tutto ciò che davvero, e senza metodi da educande, può formare i soggetti non si parla. Anche perché letteratura e filosofia, qui e là, vengono accusate di essere politicamente scorrette: Omero è un guerrafondaio machista; Platone il padre del patriarcato e via dicendo. Quindi meglio silenziare i classici che possono turbare la nostra sensibilità”.
Come educare alla sensibilità?
Mi sono chiesto più volte come educare alla sensibilità, quando come insegnante delle scuole superiori mi scontravo con una burocrazia scolastica, rinchiusa a difesa dei programmi ministeriali, che poco sosteneva progetti di educazione sentimentale e dell’affettività (il rispetto del prossimo, la conoscenza dell’altro, le emozioni, i sentimenti, il senso del bello, la creatività, la curiosità), anche quando erano corroborati da buone letture e da buoni insegnamenti.
L’importanza della letteratura anche negli istituti tecnici e professionali
La letteratura (che comprende pure cinema, teatro, ecc.) e la filosofia ancora oggi sono appannaggio solo per gli studenti dei licei, per gli altri, quelli degli istituti tecnici e professionali, è sufficiente un po’ di storia della letteratura, senza neppure leggere un’opera completa. A che serve a un geometra, a un infermiere, a un programmatore della rete, a una parrucchiera avere qualche rudimento di filosofia, leggere un classico della letteratura, andare a teatro o visitare un museo?
Quegli studenti conoscono delle arti e del senso del bello (come categoria dell’estetica, includendo “il vero” e “il bene”) solo ciò che superficialmente la Rete e la TV decidono, attraverso manipolazioni e banalizzazioni, di trasferire in pillole.
Per alcuni anni ho insegnato anche in un istituto tecnico professionale, una scuola di frontiera di un quartiere difficile di Milano, con un alto numero di episodi delittuosi, di bande giovanili e di ragazzi pluribocciati.
Gli studenti di quella scuola, italiani e stranieri con un rapporto conflittuale con le istituzioni scolastiche, non erano affatto interessati alla materia Italiano, intenti più ad approfondire le materie manuali professionalizzanti.
Professore non ci interessa un fico secco leggere un romanzo e conoscere la vita di uno scrittore, noi dobbiamo sapere montare e rimontare il motore di un’automobile. Questo è quello che ci serve nella vita.
Mi dicevano, facendo spallucce, quando iniziavo la lezione. Nei loro zainetti c’era di tutto, anche cose proibite, ma nessun libro e tanto meno quaderni, ma io non mi scoraggiai e decisi di sorprenderli con un contratto, sapendo che nella vita, oltre ai manuali, serve pure la buona letteratura:
«Ragazzi, niente libri, né lezioni e nessun programma ministeriale, leggeremo solo un romanzo di pochissime pagine».
Il contratto venne rispettato e con quel libricino non solo insegnai italiano, ma pure storia, geografia e diritto. Tra le mani avevo L’uomo che piantava gli alberi dello scrittore francese di origine piemontese Jean Giono e avremmo parlato della Prima guerra mondiale e della sanguinosa battaglia di Verdun, dove Giono rimase ferito; della Francia e della regione della Provenza; di ecologia, delle dittature, delle istanze dell’antimilitarismo e del pacifismo.
Quando dissi ai miei studenti che Giono fu incarcerato per le sue idee ben due volte, nel 1939 e nel 1944, aprii una breccia nei loro cuori, forse per il motivo che alcuni di loro avevano conosciuto il carcere minorile.
Chi era Jean Giono
Jean Giono nasce il 30 marzo 1895 a Manosquen, nella Haute Provence. Il padre, d’origine italiana, era calzolaio e sua madre stiratrice.
Per i problemi finanziari della famiglia lascia la scuola e lavora in banca come impiegato. Partecipa alla Prima guerra mondiale ed è uno dei pochi sopravvissuti della battaglia di Verdun. Pubblica una trentina di romanzi e scrive molte sceneggiature per il cinema. Nel 1960 dirige come regista il film “Cresus”. Sei suoi romanzi sono diventati film, tra cui Angelo interpretato da Fernandel.
L’uomo che piantava gli alberi, pubblicato nel 1953, diventa nel 1987 un film d’animazione diretto da Frédéric Back. Ha scritto molti articoli e saggi tra cui nel 1938 Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, pubblicato da Ponte alle Grazie nel 1997 e nel 1955 L’affare Dominic pubblicato da Sellerio nel 2002.
Muore a Manosque nel 1970.
Un libro di Jean Giono per l’educazione sentimentale dei giovani
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Rimando alla lettura de L’uomo che piantava gli alberi, libro di Jean Giono pubblicato per la prima volta in Italia da Scheiwiller e poi da Salani nel 1996.
Quel libricino mi capitò tra le mani per caso alla fine degli anni Novanta e m’incuriosì il racconto del pastore Elzéard Bouffier, che molti hanno ritenuto un personaggio realmente esistito e che la storia fosse in parte un’autobiografia dello stesso Giono. Fu lo stesso scrittore, in una lettera del 1957, a spiegare che Elzéard Bouffier era un personaggio inventato.
La bravura di uno scrittore la si misura pure dalla capacità di rendere “verosimile”, dunque realistico e veritiero, ciò che è frutto dell’immaginazione.
Secondo l’Oxford Dictionary, la “verosimiglianza” è “l’apparenza di essere vero o reale”.
La sospensione dell’incredulità è altro un concetto che presuppone un patto tra lettore e scrittore. Secondo questa definizione, gli eventi descritti da Giono, quindi il pastore che ogni giorno piantava ghiande per ridare vita alla montagna e alla piccola comunità provenzale, sarebbero potuti accadere. Nella storia dell’umanità ci sono stati donne e uomini umili, solitari, taciturni e quasi invisibili che hanno fatto grandi cose, a volte senza alcun riconoscimento, come il pastore Elzéard Bouffier che:
Trovava piacere a vivere lentamente, con le pecore e il cane.
Questo capitò pure a me, per la ragione che dopo la lettura di quelle poche pagine decisi di andare a visitare il villaggio di Vergons e prima di intraprendere quel viaggio consultai una cartina geografica, nel caso che anche Vergons fosse un paese immaginario dell’Alta Provenza.
Andai anche per un’altra ragione: io stesso stavo ultimando il mio terzo romanzo (Quando Chiara ha perduto la luce, Tabula fati, 2013) e uno dei miei personaggi aveva avuto il desiderio di scambiare due parole con Jean Giono.
Si sa, il tempo in letteratura è plasmabile. Vergons esisteva, eccome, con una popolazione di poco superiore ai cento abitanti e un territorio comunale di oltre tremila ettari di boschi e foreste.
Esisteva ed era proprio uguale alla descrizione fatta da Giono nel suo visionario romanzo:
“un agglomerato di case simile ad un vecchio alveare (...) una fonte(...) e la piccola cappella col campanile”.
Visitai la deliziosa Chapelle Notre Dame de Valvert e jl suo piccolo, antichissimo, cimitero situato su un’altura di terra rossa a poche centinaia di metri dall’ingresso in Vergons. Mi capitò di scambiare alcune parole con alcuni anziani di Vergons e un signore magrissimo e con una folta chioma bianca, un professore di liceo in pensione, mi invitò a casa sua per un caffè. Mi disse che aveva avuto l’occasione di conoscere Jean Giono durante una delle tante iniziative dello scrittore nella città di Manosque.
La cosa più sorprendente per me fu quando mi fece vedere dalla finestra di casa un triangolo della montagna colmo di alberi, tra cui molte querce e betulle.
Mi disse che all’inizio del secolo la montagna era spoglia e che negli anni, forse per un miracolo della Provvidenza, si era rinfoltita. Anche lui era convinto, come del resto i vecchi del villaggio, che la storia dell’uomo che piantava gli alberi fosse, se non reale, almeno verosimile.
Così capito pure con i miei studenti, non gli avevo insegnato le buone maniere e non avrai dato loro nessun voto sulla bontà, ma ero certo che avevano apprezzato e compreso quel libricino che parlava di buoni sentimenti. L’anno dopo proposi Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry ed ero orgoglioso che un meccanico sapesse qualcosa sull’importanza di accudire una rosa e la propria compagna di corso, perché:
È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante.
Recensione del libro
L’uomo che piantava gli alberi
di Jean Giono
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Perché leggere Jean Giono, ai tempi dell’educazione sentimentale
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