Piante che cambiano la mente
- Autore: Michael Pollan
- Genere: Scienza
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2022
Michael Pollan è uno dei nomi di riferimento del cosiddetto “rinascimento psichedelico” (fra le cose uscite in Italia sull’argomento, si può vedere il volume collettaneo licenziato da Quodlibet, La scommessa psichedelica, per la pluralità dei punti di vista).
In questi ultimi anni l’accento è stato posto innanzitutto sugli psichedelici come strumenti potenzialmente terapeutici che nulla hanno da spartire con le droghe criminali per lo più derivate dall’oppio.
Ma non manca chi vede in quello che potrebbe sembrare un patetico revival della cosiddetta controcultura d’antan (e così non è) un viatico di nuovi fermenti culturali. Al punto che lo stesso Michael Pollan, ora con il recente Piante che cambiano la mente (Adelphi, traduzione di Melina Zemira Ciccimarra, 2022), riprende il discorso inaugurato da Come cambiare la tua mente (stesso editore 2019, poi uscito in versione tascabile qualche mese fa) e dedica diverse pagine all’inutile se non dannosa “war on drugs” che è stata parte integrante della paranoia del potere americano per almeno due decenni.
Benché rispetto al libro precedente il fervore entusiastico sembri mitigato da un maggiore controllo, secondo l’autore il fallimento della guerra statunitense alla droga va ascritto anche a una nuova, almeno sperabile, visione del tema.
Nel volume Pollan descrive tre sostanze diversissime, una delle quali talmente comune da costringerci a ripensare lo stesso concetto di droga (e di conseguenza, di cosa ci sia di “naturale” o alterato nella nostra vita):
- la caffeina, uno stimolante
- l’oppio, un sedativo
- la mescalina, un allucinogeno
Il metodo è quello consolidato: dall’autobiografia al saggio, dalle esperienze personali al confronto con studiosi, esperti, consumatori, inserendo poi il discorso in più ampie dinamiche culturali, antropologiche e nei processi storici che hanno determinato l’affermazione di queste sostanze.
Torniamo alla caffeina, il cui utilizzo nella popolazione mondiale è talmente diffuso da impedire sul nascere qualsiasi possibilità di confronto. In Europa arrivò tardi e ad avviso di Pollan non ci sarebbe stato l’Illuminismo senza il caffè (chiunque può disporre di sufficienti ricordi scolastici al riguardo) e forse nemmeno il capitalismo.
Di certo il caffè era al centro di tutti i traffici del moderno commercio globale; catalizzava l’eccitazione di pensatori e uomini d’affari, nuovi adepti della lucidità e della chiacchiera salottiera che relegava le donne londinesi e parigine alla solitudine del tinello. Persino Balzac probabilmente, senza caffeina, non avrebbe potuto dar vita a una produzione impressionante come la sua.
Che poi il caffè fosse responsabile persino “della nuova prosa inglese” è una congettura che lo stesso Pollan riconosce come una suggestione appassionante ma peregrina (alcune ricostruzioni storiche possono offrire il destro alle obiezioni degli specialisti).
Ma il piacere di raccontare è lo stesso di quando l’autore si sofferma sulla propria esperienza, secondo un ideale di giornalismo partecipato in cui si mostra il cammino da una posizione di ignoranza alla conoscenza diretta.
Cosa fa Pollan, per esempio? Smette di prendere il caffè per “vedere l’effetto che fa”: e come potrebbe verificare qualsiasi abituale consumatore, l’effetto che scopre è devastante (l’autore cerca quasi di mostrare il farsi stesso – faticosissimo – della scrittura in astinenza).
Che dire dunque se - come è successo all’autore - una volta privato della caffeina ognuno dei miliardi di umani consumatori abituali si percepisse come uno zombie? Come facciamo a ritenere che le droghe siano necessariamente un male? Quand’è che la stessa dipendenza si configura come male? Forse quando mette a rischio l’integrità di un potere economico?
Scrive Pollan:
Le società tollerano le droghe che cambiano la mente quando contribuiscono ad appoggiare il dominio della società e le proibiscono quando ai loro occhi le minano.
Sarebbe il caso allora di ricordare la natura bifronte della maggior parte delle sostanze: lo stesso papavero d’oppio è responsabile di migliaia, forse milioni, di morti di overdose, ma aiuta a “rendere sopportabile un intervento chirurgico e meno doloroso il trapasso”.
Nelle pagine sull’oppio l’autore integra lavori di quasi trent’anni prima rimasti inediti per questioni legali, lasso di tempo durante il quale nessuna repressione ha prodotto una diminuzione significativa del consumo.
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Il caso della mescalina, prodotta dal cactus Pejote e da un altro cactus meno diffuso ma di più facile e rapida coltivazione chiamato Sanpedro, con la cui crescita Pollan si è cimentato nel proprio giardino, è come suol dire, emblematico, Fondamentale per i nativi d’America da tempi immemori, lo è stata ancora più nell’epoca del genocidio. Il Pejote ha indubbiamente sortito un effetto terapeutico sui sopravvissuti; come è noto, non di rado l’uso di questi allucinogeni per certe popolazioni si lega a elementi rituali, se non mistici, piuttosto che edonistici. E non casualmente è stato ostacolato dalla chiesa cattolica (specie in Messico) solita imporsi come intermediario nel rapporto fra uomo e Dio.
I meno giovani ricorderanno l’amico che ti consigliava la lettura di un qualunque romanzo di uno scrittore corrivo come Castaneda, dimenticando un autore di altra caratura come Aldous Huxley, citato invece più volte da Michael Pollan, e molti ancora ne potremmo ricordare.
Ora, se visto nell’ottica occidentale (americana), un piano terapeutico della mescalina appare difficile per la sua stessa smisurata potenza e la durata eccessiva.
Resta tuttavia un punto decisivo: il mondo di cui si parla in questo libro è troppo vasto per lasciarlo in pasto ai pregiudizi.
Piante che cambiano la mente. Oppio, caffeina, mescalina
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