In occasione del Dantedì analizziamo uno dei personaggi più iconici della Divina Commedia, ovvero Pier delle Vigne, il poeta che Dante incontra nel Canto XIII dell’Inferno nella selva dei sucidi. Si tratta, insieme al Conte Ugolino, a Paolo e Francesca e a Pia de’ Tolomei, di uno dei “tipi umani” più significativi descritti nella narrazione dantesca.
In questo canto, il tredicesimo dell’opera, Dante dà prova della propria incredibile capacità immaginativa e rappresentativa. Ci immerge in un’altra selva, diversa da quella che avvolge il lettore in un intrico oscuro di rami nell’incipit del poema, tuttavia in qualche maniera a essa complementare.
Stavolta la rappresentazione si fa subito orrorifica, l’inquietudine si accresce a ogni verso man mano che Dante e la sua guida, Virgilio, avanzano tra i rami ricurvi di quella strana foresta dalla quale provengono - chissà da dove, chissà perché - voci umane. Al principio il Sommo Poeta pensa, intimorito, che i dannati siano nascosti dietro i tronchi o appartati tra gli alberi spogli, invece sarà costretto a fare una scoperta molto più agghiacciante. Il protagonista del Canto XIII è, appunto, Pier delle Vigne e sarà colui che prenderà parola alla fine di questa evocativa rappresentazione e che ci condurrà nel mezzo di una verità dolorosa e lacerante.
Vediamo più approfonditamente l’analisi del Canto XIII e il suo personaggio più celebre.
Il Canto XIII dell’Inferno: analisi e commento
Il paesaggio, nel Canto XIII dell’Inferno, ha una funzione inquietante: non è solo lo specchio riflesso di una condizione interiore o lo sfondo di una terribile pena, in questo girone infernale diventa proprio il corpo dei dannati. Avanzando in quella strana selva Dante infatti farà una macabra scoperta: si arresta, smarrito, cercando di capire da dove provengano i gemiti, quando a un certo punto Virgilio spezza un ramoscello di pruno e, con sgomento, i due realizzano che i lamenti provengono proprio da quel ramo. La rappresentazione dantesca raggiunge il massimo grado quando il ramoscello spezzato sanguina, oltre che lamentarsi, e aggiunge in un grido: “Non hai nessuna pietà?”.
E il tronco suo gridò: Perché mi schiante?
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
Ricominciò a gridar: Perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietate alcuno?
Sarà proprio quella voce a rivelare a Dante la verità, tramutando di fatto il paesaggio in un macabra realtà: “Uomini fummo”. La ragione di quel “fummo” è da attribuirsi allo scarto tra vita e vita dopo la morte, ma viene poi raggelata da un verbo coniugato al presente “siamo fatti”. L’antitesi verbale non è casuale, ma di per sé evocativa, racchiude in sé tutto lo scarto, dà voce alla tacita lotta, all’ingiustizia che attraversa i versi come una corrente. Ora quegli uomini sono diventati alberi, ma, ecco, questa la domanda che si insinua: hanno mai davvero smesso di essere uomini?
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi:
Ben dovrebb’esser la tua man più pia,
Se state fossim’anime di serpi.
Dopo questa breve introduzione - che fornisce a Dante la vera misura dell’orrore che lo circonda - ecco che lo spirito che ha parlato inizia a raccontare la propria storia.
Non prima, tuttavia, che venga rivelata la similitudine tra i versi danteschi e quelli virgiliani: è, del resto, lo stesso Virgilio a dirlo al suo fido allievo, “ciò c’hai veduto anche con la mia rima”. La figura dell’albero sanguinante è infatti ripresa anche nel secondo libro dell’Eneide quando Enea sbarca sulla costa della Tracia e scopre la maledizione che ha colpito Polidoro.
L’omaggio virgiliano è un passo importante di questo tredicesimo canto perché, in qualche modo, riflette le prime parole che Dante rivolge, commosso, a Virgilio nel primo canto del poema. Ecco che, proprio in questo punto, le due selve si incontrano, c’è un punto di contatto ed è tutto nel rimando a colui che per il Sommo Poeta fu “il maestro e l’autore”, colui da cui apprese la bella penna che gli avrebbe fatto onore e avrebbe accresciuto la sua fama. La più bella dichiarazione d’amore e di ammirazione dell’opera dantesca non a caso è rivolta a Virgilio, posta nel Canto I, e dice:
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Ecco che l’imitazione dantesca dell’opera virgiliana prende corpo proprio in questo Canto XIII in cui, esplicitamente, Dante copia un passo dell’Eneide di Virgilio riproducendo di nuovo, con un tono incredibilmente meraviglioso, la figura dell’albero sanguinante. Ma, come tutti gli allievi, Dante va oltre il suo Maestro e lo supera.
Il Canto XIII dell’Inferno: Pier delle Vigne
L’albero sanguinante descritto da Dante, tuttavia, non è Poliodoro ma Pier delle Vigne, uno dei personaggi più toccanti e rappresentativi della Divina Commedia.
Con grazia e rara eleganza poetica il dannato racconta la propria storia, fornendo un compiuto ritratto di sé stesso. Costui ci appare come un giusto vittima di una tremenda ingiustizia che, compiendo in maniera pur “onorevole” il proprio compito (il glorioso offizio) perde prima la pace e, poi, addirittura la vita. Nell’esistenza di Pier delle Vigne avviene un drammatico rovesciamento, per cui i “felici onori” si trasformarono in “cupi dolori”. Si trova disonorato e perseguitato ed ecco che, infine, l’anima addolorata rivela la propria colpa:
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Il suo animo, che Pier delle Vigne definisce “indignato”, nella vana speranza che la morte avrebbe potuto cancellare il disprezzo, lo fece agire in maniera “ingiusta” contro sé stesso: dunque, si tolse la vita. Con questo gesto Pier delle Vigne si tramuta da vittima, da puro di cuore, in peccatore. L’atto terribile compiuto contro sé stesso - il suicidio - trasforma l’animo, che pure non aveva tradito, in un dannato. Di nuovo Pier delle Vigne giura, sulle radici della pianta che ora è divenuta il suo corpo, di non aver mai tradito il suo Signore, ovvero Federico II.
Dopo aver rievocato la propria vicenda lo spirito supplica Dante perché, una volta tornato nel “mondo dei vivi”, possa vendicare il suo onore che ancora appare svilito dall’invidia.
Solo a questo punto il dannato spiega a Dante il significato della propria pena: l’uomo non può riavere ciò che ha rifiutato, quindi coloro che da vivi rifiutarono il proprio corpo sono condannati a non riaverlo mai più. I suicidi resteranno qui nel settimo cerchio dell’Inferno, nella “triste selva”, con il nuovo corpo generato - un albero - dalla loro “anima nemica”, insidiato dalle molestie delle arpie (guarda caso un’altra creatura virgiliana che appare anche nel terzo libro dell’Eneide). Nel giorno del Giudizio Universale infatti, come rivela Pier delle Vigne in una funesta visione, i suicidi non torneranno nel proprio corpo ma lo vedranno appeso al ramo dell’albero che ora li ospita, come una cosa vicina eppure irraggiungibile.
Con queste esatte parole “anima nemica” si chiude il discorso di Pier delle Vigne. Il dannato ha parlato a Dante con un lessico alto e forbito che rivela le sue origini aristocratiche; con l’eleganza del suo narrare, il Sommo Poeta ha già restituito valore e onore al suo personaggio che, in un certo senso, sembra vendicarsi da sé delle ingiustizie patite in vita tramite l’erudizione del suo discorso. Dante, condannato con l’esilio a un’ingiustizia non minore da quella patita da Pier delle Vigne, doveva provare una simpatia istintiva verso la povera anima tramutata in arbusto per l’eternità. Tramite il discorso proferito, lo spirito riesce in qualche modo a riscattarsi, a pronunciare il proprio grido di verità e nel cuore di Piero, persino nel profondo buio infernale, continua a ardere la propria perpetua fedeltà al suo Signore, Federico II.
Impossibile non provare pietà per l’infelice cancelliere Pier delle Vigne che, come si evince dalla storia ben intessuta da Dante, fu costretto al suicidio dalla calunnia e dall’invidia. La sua morte appare come una colpa individuale, eppure, ciò che ci strazia come lettori, è che in realtà leggendo comprendiamo che si tratta di una colpa sociale, come spesso accade tuttora nei casi di suicidio.
Il Canto XIII dell’Inferno dunque apre a una riflessione ancora attuale e Pier delle Vigne, pur essendo un uomo nato in realtà nel 1220, appare straordinariamente moderno: anche noi lettori del ventunesimo secolo entriamo in profonda empatia con lui, siamo lacerati e commossi dalla sua storia.
Chi era Pier delle Vigne: la storia vera del personaggio dantesco
Pier delle Vigne in vita fu poeta e giurista alla corte di Federico II di Svevia e divenne uno dei più stretti collaboratori dell’imperatore. Nato a Capua attorno a al 1190, entrò nella corte come notaio attorno al 1220 e in poco tempo, grazie al suo assiduo lavoro, ne divenne uno dei maggiori amministratori.
Godeva di una grande reputazione e di chiara fama, ma, probabilmente a causa di un intrigo ordito a suo danno dai cortigiani, cadde in disgrazia e fu accusato di tradimento.
Gli studiosi ci rivelano che Pier delle Vigne oltre che essere un valente funzionario fu anche un talentuoso poeta e compositore. Rivelava ottime doti anche nella prosa epistolare, tanto che era molto richiesto per la scrittura di lettere di ogni genere, da quelle d’amore a quelle per un lutto.
Attorno al 1249 fu imprigionato e torturato, costretto in carcere, forse a Pisa. Si narra che lo accecarono con un ferro rovente per costringerlo a confessare ciò che non aveva commesso. Si uccise di propria mano dopo essere stato torturato, svilito, umiliato. Secondo la leggenda il suicidio di Pier delle Vigne si compì in modo tremendamente teatrale: l’uomo si fracassò la testa contro le mura della chiesa pisana di San Paolo a Ripa d’Arno.
Di lui ci rimangono numerosi componimenti in latino e volgare e, naturalmente, le sue lettere, molte delle quali erano composte addirittura a nome dell’imperatore. Potremmo individuare in Pier delle Vigne anche un moderno ghostwriter; di certo fu un grande intellettuale a tutto tondo, poeta e giurista, un uomo abile nell’ars retorica. La sua figura ci rivela un lato oscuro del Medioevo: il mondo terribile delle corti, fatto di malelingue e invidie capaci di insidiarsi velenose come serpi sino a uccidere nella peggiore e più sordida delle maniere. Siamo di fronte a un uomo che si uccise per proclamare la propria innocenza, cercando, attraverso la morte, di provare la propria verità, ma senza riuscirci.
Il dialogo che Dante intesse con Pier delle Vigne nel Canto XIII dell’Inferno sembra in qualche modo riscattare quest’uomo dalla sua sorte sventurata e, tra le righe, nell’ambientazione angosciante della selva con gli alberi sanguinanti sembra dirci che, in realtà, il suicidio non è una colpa. Quando Pier delle Vigne conclude il suo discorso, con il riferimento all’“anima nemica” che suggerisce una concezione dualistica di stampo platonico, nessuno di noi può fare a meno di provare un moto istintivo di pietà.
Del Canto XIII dell’Inferno, uno dei più evocativi e spettrali dal punto di vista della rappresentazione simbolica, ci dà una splendida raffigurazione Gustave Dorè che ritrae Dante e Virgilio mentre interpellano un albero secco in cui si intravedono delle sembianze umane. I rami sono braccia, le dita sono dei ramoscelli nodosi, sulla sommità si scorge il profilo indistinto di una testa. Quel tronco, guardato con attenzione, è un corpo. È Pier delle Vigne cui anche il pittore e incisore francese ha voluto rendere omaggio restituendogli, pur nella disumanità bestiale dell’Inferno, delle sembianze umane. Nel dipinto di Dorè la terribile metamorfosi non è del tutto compiuta: Pier delle Vigne è metà albero e metà uomo, vale la pena concentrarsi su questo, nonostante tutto, è ancora un uomo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Pier delle Vigne nel Canto XIII dell’Inferno di Dante: un’analisi
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