Piergiorgio Paterlini nasce nel 1954 a Castelnovo di Sotto, provincia di Reggio Emilia.
Si laurea in Scienze della Formazione e comincia a fare il giornalista da giovanissimo.
Nel 1975 il primo articolo sul manifesto. Nel 1980 Miriam Mafai lo chiama a collaborare alle nascenti pagine emiliano-romagnole del quotidiano la Repubblica.
Ha pubblicato una ventina di libri, alcuni dei quali tradotti in Francia, Spagna, Olanda, Stati Uniti.
Il suo longseller è “Ragazzi che amano ragazzi” pubblicato da Feltrinelli che, per i vent’anni dall’uscita, lo ha festeggiato con un’edizione speciale arricchita di una nuova prefazione dell’autore.
Ha scritto programmi per Radiorai e per Raidue, Raitre e La7, e testi per il teatro (fra cui l’adattamento de “La Califfa”, di Alberto Bevilacqua).
Ha sceneggiato il film “Niente paura”, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2010.
È tornato nelle librerie col suo nuovo libro “Fisica quantistica della vita quotidiana. 101 microromanzi”, pubblicato da Einaudi.
Potete seguirlo nella rete su “Le Nuvole”, il suo blog d’autore sull’Espresso, e tutti i lunedì su www.espresso.repubblica.it nella rubrica “Caro onorevole”.
Piergiorgio, intanto ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
- Prima chiacchiera: I quindicenni omosessuali di fine anni Ottanta intervistati da te per il tuo “Ragazzi che amano ragazzi”, uscito per la prima volta nel 1991, raccontano sì la sofferenza per i soliti facili giudizi che piombano loro addosso dalle persone più care (fratelli, genitori, compagni di classe), ma reagiscono, dimostrando sempre una loro forte indipendenza mentale. Cercano modi e luoghi di incontro diretti, pensano a quando saranno grandi, a come vorranno vivere l’amore. I ragazzi di oggi, al contrario, comunicano quasi soltanto attraverso i social network e danno l’impressione di una fragilità pericolosa, come testimoniano gli ultimi terribili fatti di cronaca.
Sto semplificando troppo? L’Italia continua a non cambiare, come tu stesso sottolinei nella prefazione, ma come sono cambiati i “ragazzi che amano ragazzi” in questo ventennio?
Sì, credo semplifichi troppo. Questa generazione di adolescenti, se possibile, è ancora più articolata, frastagliata, complessa di altre. Le cause sono molteplici e non si possono nemmeno elencare qui. A me preme sottolineare come nelle epoche di transizione – quale è la nostra, anche se la nostra è infinita e man mano che passano gli anni la transizione diventa una orrenda palude da cui sembra impossibile persino immaginare di poter uscire – nelle epoche di transizione, comunque, sembra che nessuno viva nel presente, qualcuno vive nel passato, qualcun altro vive già nel futuro. Detto altrimenti, il vecchio e il nuovo si mescolano, confusamente e confusivamente, si combattono, si affiancano in una calca da spiaggia ferragostana. E per venire più direttamente al tema: alcuni ragazzi omosessuali oggi sono infinitamente più forti, più felici, più “realizzati” dei loro coetanei di vent’anni fa, altri si sentono e sono soli e infelici come allora. Un tabù millenario che tutti abbiamo sottovalutato, la mancanza di diritti e il bullismo quotidiano nelle scuole – dall’asilo all’università – certo non aiutano. Né gli uni né gli altri, bisogna dire.
- Seconda chiacchiera: Se ci fermassimo alla struttura di “Fisica quantistica della vita quotidiana. 101 microromanzi”, potremmo definirlo come una raccolta di storie che non superano le due pagine.
Perché “microromanzi” e non “racconti” o “microracconti”? Cosa intendi quando definisci un testo “microromanzo”? Cosa deve avere in più o di speciale, che immagino c’entri poco col numero di parole?
Certo, il numero di parole o di righe non c’entra nulla. La distinzione può sembrare di lana caprina e forse lo è. Io li ho definiti microromanzi perché non si tratta di frammenti ma, nella loro brevità, di storie complesse e concluse, che cercano di costruire un mondo – giocando con tutti i generi letterari immaginabili e possibili, dall’horror alla fantascienza, dal sentimentale al surreale, dal giallo alla cronaca sportiva – mondi, dunque, o, nella logica del gioco che pervade tutto il libro, un “universo”, anzi “universi paralleli”, come quelli della fisica quantistica.
- Terza chiacchiera: Giochi col lettore, lo inganni in senso buono con le apparenze per poi stupirlo e in qualche caso sconvolgerlo nel finale di ogni storia. Prepari il terreno alla sorpresa e poi spari il colpo, tutto in pochissime battute, lasciando in qualche caso l’amaro in bocca, in qualche altro un sorriso. È un meccanismo narrativo che si ritrova in moltissimi dei microromanzi. Come mai questa decisione? Se la fisica quantistica studia le proprietà delle particelle della materia e quindi degli oggetti che ci circondano, come sono fatte invece le “particelle” che regolano i meccanismi della vita quotidiana?
Agatha Christie sfidava il lettore seminando indizi, pochi e difficilissimi ma onesti, per fargli indovinare l’assassino. Io faccio l’operazione contraria. Faccio capire subito al lettore, al terzo microromanzo, il meccanismo, perché voglio che giochi con me, non sfidarlo. Io – la differenza è sottile ma insieme enorme – non semino indizi mentre preparo il finale a sorpresa. Racconto l’inizio di una storia quotidiana, poi scrivo un finale assolutamente coerente ma inaspettato. Chiedo al lettore non di indovinarlo prima di me, semmai di costruirne un altro, diverso dal mio, coerente con le stesse premesse. È un gioco, ma non fine a se stesso: cerco di far vedere come la realtà sia complessa, come ciò che noi chiamiamo “vero” (e univoco) perché “l’ho visto con i miei occhi” non sia che una delle interpretazioni possibili, spesso la più banale e molto spesso la più fallace. I fatti sono equivoci, le parole che li spiegano sono univoche. Credo alle interpretazioni, secondo la famosa frase di Nietzsche, e come la fisica quantistica (che “indovina” con precisione il bosone trent’anni prima di riuscire a “vederlo”). Credo, ancora di più e senza ingenuità, alla buona fede delle persone, a una parola sincera e non detta per “fregarmi”, alla verità che si costruisce solo nel dialogo umano.
- Quarta chiacchiera: Coma ti è venuta l’idea di esplodere il gigantesco mondo della vita in una sintesi così fulminante? Perché, visto il tema, non scriverci un grandioso romanzo? Hai scritto i tuoi microromanzi tutti nello stesso periodo proprio per questo libro, oppure sono frutto di intuizioni venute negli anni e che hai deciso di raccogliere solamente adesso?
Ho scritto tutti questi microromanzi ex-novo, nell’arco di un anno esatto (e un altro anno per revisionarli, riscriverli mille volte, montarli e smontarli quasi all’infinito, anche nella scansione), partendo dall’assoluta chiarezza e vorrei aggiungere determinazione di ciò che volevo dire e che ho raccontato nella risposta precedente. Con questo presupposto ho provato a smontare l’interpretazione banale del quotidiano in un gran numero di momenti e di “esempi”, e ho pensato che il microromanzo fosse la forma più adatta. Ma ero anche affascinato dalla sfida a cui questo genere letterario mi obbligava: il racconto breve o brevissimo, ora posso definirlo così. La sfida della scrittura, non dell’argomento. Che altro è un libro, parli di ragazzi che amano ragazzi o di rapimenti alieni, se non una prova di scrittura?
Questa era l’ultima chiacchiera: non mi resta che salutarti e ringraziarti per aver accettato il mio invito, facendoti molti in bocca al lupo per il tuo futuro. Se vuoi lasciare un messaggio al mondo intero, qui puoi farlo.
Non ho messaggi da lanciare al mondo, figuriamoci. Non sono il Papa all’Angelus. Sono soltanto uno che ha la fortuna e la passione di raccontare storie.
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