Un giallo atipico
Ambientato nell’Italia dei difficili anni di piombo, una nazione ferita e trasfigurata in una sorta di parodia amarissima e sardonica, Il contesto narra delle indagini al seguito degli omicidi di alcuni giudici: l’ispettore Rogas, dotato di cultura e ironia e per questo inviso a colleghi e superiori, seguirà una propria pista (il colpevole sarebbe un uomo condannato anni prima, forse ingiustamente, per tentato uxoricidio), anche se i vertici della polizia e della politica vogliono costringerlo a perseguire alcuni gruppi eversivi. Ne seguirà una vicenda sempre più intricata e grottesca, in cui si scopriranno coinvolti insospettabili rappresentanti delle istituzioni. Rogas si muoverà sempre più a disagio, e sempre più solo, nei meandri del potere, riuscendo solo a sfiorare (e con lui il lettore) una verità che pare sempre più allucinata e inaccettabile.
I tanti volti della stessa colpa
Davvero inquietanti sono i ritratti che fa Sciascia degli uomini che dovrebbero guidare il paese: in particolare si fanno ricordare il ministro degli interni, che non vede l’ora di includere nel governo il principale partito d’opposizione, nella sostanza non molto diverso da quello a cui appartiene (che, parole sue, “malgoverna da trent’anni”), e il giudice Riches, che arriva ad affermare che l’errore giudiziario non esiste: egli è il detestabile simbolo di una magistratura solo inquisitoria, il cui scopo non è l’accertamento della verità da cui derivi la giustizia, ma la punizione di un colpevole, chiunque sia, in una sorta di esercizio arbitrario e fideistico della legge, che si fa quindi una sorta di religione. Con tutte le conseguenze del caso.
Insomma, sono tutti collusi in qualche modo: la politica, la magistratura, le forze dell’ordine, persino i presunti rivoluzionari… È il desolante ritratto di un’accozzaglia di individui mossi solo da motivazioni personali, sempre pronti a conservare la poltrona che occupano da troppo tempo, o ad avanzare il più rapidamente possibile nella propria carriera scellerata. E questo nel migliore dei casi: perché alcuni di loro, quelli che occupano i posti più apicali delle istituzioni, si sentono ormai al di sopra di tutto, forti delle proprie certezze assolute e autoassolutorie, simboli avvelenati di un potere che si autoalimenta e conserva sempre uguale a se stesso. Nessun valore, né principio, né ideale al servizio del cittadino e della comunità: resta solo il potere in quanto tale.
L’unico a mantenere dei princìpi rimane Rogas, e la sua ribellione finale sfocia in un finale ambiguo che lascia smarriti e indignati. Per tutto il romanzo aleggia un’aura stagnante, di palude; delle istituzioni democratiche resta solo uno sfondo di cartapesta, non rimane che il vuoto esercizio del potere, un meccanismo inumano, un’astrazione mostruosa, una piovra dai mille tentacoli capace di raggiungere e stritolare chiunque osi opporsi allo status quo. È di certo l’opera più “apocalittica” del grande scrittore siciliano, che scrisse a proposito del suo romanzo: “
Ho cominciato a scriverla – questa parodia – con divertimento, e l’ho finita che non mi divertivo più”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il potere è una piovra dai mille tentacoli: Il contesto di Leonardo Sciascia
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