Povera patria. I processi agli ufficiali italiani nella prima guerra mondiale
- Autore: Paolo Gubinelli
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2022
Duemilaseicentottanta ufficiali del Regio Esercito processati durante la guerra 1915-18, ma delle venti condanne a morte pronunciate solo tre eseguite, tre aspiranti fucilati, in pratica sottotenenti in prova, il grado più basso della categoria. Numeri molto più bassi rispetto alla severità della giustizia militare della Grande Guerra nei confronti di sottufficiali, graduati e soldati semplici. I dati si leggono nel saggio di un alto magistrato, il marchigiano Paolo Gubinelli, pubblicato a marzo 2022 da Gaspari Editore, Povera patria. I processi agli ufficiali italiani nella prima guerra mondiale nella collana “Storica” della casa editrice udinese, con la prefazione di Paolo Pozzato e la postfazione di Paolo Gaspari, specialisti prestigiosi della prima guerra mondiale.
Sostituto procuratore della Repubblica ad Ancona, Gubinelli ritiene “difficilmente contestabile” che i tribunali militari italiani siano stati “piuttosto ben disposti” verso gli ufficiali un secolo fa.
Nel corso del conflitto, secondo i dati del Ministero della guerra finirono sotto processo marziale in 2680 (pari all’1,3% dei mobilitati), contro 289.343 soldati imputati (6.9%) e soprattutto ben 4028 sentenze capitali comminate, 750 delle quali eseguite, senza tenere conto delle esecuzioni sommarie, almeno 300.
Quando gli ufficiali finivano alla sbarra, si trattava in gran parte di gradi inferiori, quasi tutti di complemento con il passare del tempo. Da tenente colonnello in su, furono giudicati dalle corti militari solo 58 comandanti, tra cui una sola “greca”, il generale Renato Rosso, coinvolto con la sua Brigata Arno nel disastro di Caporetto, ma assolto. D’altra parte, i tribunali erano formati in larga misura da ufficiali superiori, spesso di carriera, che dovevano provare una certa empatia verso i pari grado e magari pari corso nell’Accademia di Modena.
Questo non vuol dire negare che il giudizio nei confronti degli ufficiali sia stato un fenomeno e che abbia presentato aspetti messi in luce dallo studio di tante carte processuali da parte dell’autore. Dalle cifre, testimonianze, sentenze e spaccati di vita al fronte emergono le esperienze di giovani con le stellette di complemento gettati imberbi e acerbi ad affrontare una grande prova a costo della vita, davanti ad altri uomini da comandare.
Nell’agosto 1914, l’Esercito italiano contava 45.099 ufficiali (dei quali soltanto 15.858 in servizio permanente) e fino al novembre 1918 ne furono nominati in fretta e furia 160.191. Risulta evidente, faceva notare il generale Capello, “che l’improvvisazione di una così gran massa dovesse andare a scapito della qualità”. E i rapporti con la truppa videro lievitare tensioni.
Secondo Adolfo Omodeo:
Per il giovane ufficiale di provenienza borghese, il più grave problema era quasi sempre costituito dal rapporto con il soldato proletario, per lo più analfabeta, spesso più anziano e più maturo del tenente.
Non c’è da sorprendersi se alcuni di questi ufficiali avventizi abbiano reagito adottando misure spicce o pesanti per imporsi sui sottoposti (contando sulla presunzione d’impunità). Tanti i processi per maltrattamenti, anche percosse, inferti ai soldati. Gli stessi ufficiali inferiori subivano a loro volta abusi di autorità e vessazioni dagli ufficiali superiori.
Un aspetto interessante del lavoro del procuratore è che la media dei processi agli ufficiali nella Grande Guerra si colloca a metà tra la tolleranza evidenziata in un esempio indicato da Paolo Gubinelli e il rigore denunciato da Forcella e Monticone.
I due autori dell’iconico Plotone d’esecuzione. I processi della prima guerra mondiale(1972), citano la condanna a morte di un aspirante ufficiale, reo di disfattismo per avere espresso sfiducia nei confronti dell’esercito.
Le carte preprocessuali del tribunale militare di Bassano del Grappa documentano un quadro significativamente grave: non solo l’ufficiale in questione risultava ampiamente recidivo, ma si era comportato come una sorta di agit-prop delle forze austro-ungariche.
Al di là del caso specifico, ribadiamo che sono tre le sentenze a morte effettivamente eseguite nei confronti di ufficiali, in una forza armata che finì col mobilitare oltre cinque milioni di uomini e che contava un numero altissimo di ufficiali di complemento, spesso formati in corsi accelerati di appena un paio di mesi.
L’impressione che il magistrato saggista ricava da molte sentenze è che il plotone d’esecuzione di Forcella e Monticone abbia rappresentato per i collegi giudicanti un caso estremo e proprio per questo da evitare. Tanto, almeno per quanto riguardava la valutazione degli ufficiali, per i quali, oltre alla comune appartenenza professionale, valeva non meno l’analoga provenienza di classe e la convinzione, pur inespressa, che lo Stato unitario fosse un prodotto prevalente, se non esclusivo, della borghesia.
Più o meno lo stesso avveniva in Francia e in Gran Bretagna: la classe dirigente militare italiana, come ogni altra corporazione, “recalcitrava a processare se stessa”.
Lo faceva ancora di più quando si trovava a giudicare ufficiali in servizio permanente, come all’inizio del conflitto, prima che le perdite negli assalti in testa ai plotoni - con i gradi ben in vista ad attirare il tiro nemico - comportassero la necessità di allargare la base dei quadri, formando rapidamente ufficiali inferiori in fanteria, per gestire l’enorme incremento degli uomini sotto le armi. Nei confronti degli ufficiali di complemento, temporanei, i tribunali si mostrarono di manica un po’ più stretta, senza particolari scrupoli di ferire la dignità della casta professionale.
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