Nel settembre del 1879 un giovane Giovanni Pascoli veniva arrestato e rinchiuso in una cella del carcere di San Giovanni in Monte. Vi sarebbe rimasto per oltre due mesi, sino al 22 dicembre di quello stesso anno. L’esperienza della prigionia ispirò a Pascoli la poesia La voce, contenuta nella raccolta I Canti di Castelvecchio (1903).
L’arresto di Giovanni Pascoli
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Pascoli all’epoca aveva ventiquattro anni e fu accusato di aver oltraggiato i carabinieri al grido di “Avanti, sgherri vigliacchi!”. Il giovane poeta stava partecipando a una manifestazione di protesta contro la condanna di alcuni internazionalisti imolesi arrestati l’anno precedente.
Il 7 settembre fu arrestato e l’11 settembre rinchiuso nel carcere bolognese di San Giovanni in Monte. Durante l’interrogatorio che precedette la reclusione Pascoli provò a difendersi affermando di non appartenere ad alcun partito politico, ma non riuscì a trattenersi dal dire:
Le mie idee individuali mi rendono vicino a quei socialisti che desiderano il miglioramento della società senza pervertimento dell’ordine.
E si tradì. Il suo socialismo veniva percepito come una maniera di sovvertire l’ordine stabilito dalla legge e dallo Stato, dunque era “anarchia”. I suoi vani tentativi di difesa non gli valsero alcuna assoluzione; fu rinchiuso in una cella piccola e scura e vi avrebbe trascorso gran parte dell’inverno fino a metà di dicembre, venendo liberato poco prima di Natale.
Nel novembre 1879 Pascoli, stretto tra le pareti della sua umida e triste cella, ebbe l’ispirazione per la poesia La voce, conosciuta anche con il sottotitolo “Una notte dalle lunghe ore nel carcere”.
In quei versi struggenti, un intenso monologo scritto sottoforma di dialogo, percepiamo tutto lo smarrimento esistenziale del poeta che si trovava rinchiuso in un luogo “non-luogo” dove passato e futuro sembravano convivere nella prospettiva di un eterno presente. Abbandonato a sé stesso, nella solitudine più completa, Pascoli instaura un dialogo immaginario con le persone conosciute e incontrate nel corso di una vita. L’aspetto più sorprendente è che un testo di tale intensità sia stato scritto da un ragazzo di appena ventiquattro anni, tale era Pascoli allora; eppure in questi versi troviamo descritto il viaggio di una vita intera, il ricordo tenero di affetti e luoghi perduti, la ricerca spasmodica di un rifugio, di un “nido” cui fare ritorno e la spinta a credere nel futuro, in un sogno impossibile. I toni del componimento oscillano sempre tra i due tempi opposti (passato/futuro), seguendo un andamento monologante.
Nella cella di San Giovanni in Monte, nel carcere di Bologna, Giovanni Pascoli si cala nelle profondità oscure del suo animo, come un palombaro nell’abisso e ne riemerge ascoltando le molteplici “voci” che lo attraversano. La parola diventa il rifugio, il magico sortilegio cui affidarsi per ricomporre sé stesso proprio quando tutto sembra perduto.
Non possiamo scindere La voce dal momento drammatico in cui fu composta; dobbiamo immaginare un uomo chiuso in una cella, nel buio, mentre il freddo di novembre lo aggredisce come una bestia feroce con denti e artigli. C’è quest’uomo solo nel buio, che trema, e si affida alla parola per trovare conforto:
C’è una voce nella mia vita
Scopriamo testo e analisi della poesia La voce, composta da Pascoli durante la dura esperienza della prigionia.
“La voce”, la poesia di Pascoli composta in carcere
C’è una voce nella mia vita,
che avverto nel punto che muore:
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:voce d’una accorsa anelante,
che al povero petto s’afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:tante tante cose che vuole
ch’io sappia, ricordi, sì… sì…
ma di tante tante parole
non sento che un soffio... Zvanì...Quando avevo tanto bisogno
di pane e di compassione,
che mangiavo solo nel sogno,
svegliandomi al primo boccone;una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, si beve?);dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto daccanto
quel soffio di voce... Zvanì...Oh! la terra, come è cattiva!
la terra, che amari bocconi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
- No… no… Di’ le devozïoni!Le dicevi con me pian piano,
con sempre la voce più bassa:
la tua mano nella mia mano:
ridille! vedrai che ti passa.Non far piangere piangere piangere
(ancora!) chi tanto soffrì!
il tuo pane, prega il tuo angelo
che te lo porti... Zvanì...Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere!), che all’improvviso
dissi - Avresti molto dolore,
tu, se non t’avessero ucciso,ora, o babbo! - che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:e che agli uomini, la mia vita;
volevo lasciargliela lì…
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio... Zvanì...Oh! la terra come è cattiva!
non lascia discorrere, poi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
- Piuttosto di’un requie per noi!Non possiamo nel camposanto
più prendere sonno un minuto,
ché sentiamo struggersi in pianto
le bimbe che l’hanno saputo!Oh! la vita mia che ti diedi
per loro, lasciarla vuoi qui?
qui, mio figlio? dove non vedi
chi uccise tuo padre... Zvanì...?Quante volte sei rivenuta
nei cupi abbandoni del cuore,
voce stanca, voce perduta,
col tremito del batticuore:voce d’una accorsa anelante,
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:la tua bocca! con i tuoi baci,
già tanto accorati a quei dì!
a quei dì beati e fugaci
che aveva i tuoi baci... Zvanì...che m’addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi,
sentivo un tepore di pianto!che ti lessi negli occhi ch’erano
pieni di pianto, che sono
pieni di terra, la preghiera
di vivere e d’essere buono!Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t’uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso... Zvanì...
La voce di Pascoli, letta da Vittorio Gassman
“La voce” di Giovanni Pascoli: analisi e commento
Ogni verso di questa poesia di Pascoli sembra scandire l’angoscia delle ore interminabili trascorse nel carcere di San Giovanni in Monte. Sprofondato nella tenebra, costretto suo malgrado a vivere in un limbo, il poeta intesse un dialogo con i morti. In questi versi struggenti ritorna la figura del padre - eterno tormento del poeta, la cui morte prematura è rievocata in X agosto e La cavalla storna - ma anche altre figure amate e perdute per sempre.
Nelle lunghe ore del carcere Pascoli ricorda il caro Babbo, che ora riposa forse in un cimitero:
Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere!), che all’improvviso
dissi - Avresti molto dolore,
tu, se non t’avessero ucciso,ora, o babbo! - che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero
Pascoli parla con i suoi morti, ma in fondo è con sé stesso che parla in un monologo lacerante. Capiamo che a parlare è lui stesso, lui stesso che si immagina cadavere chiuso in quella cella come in un girone dell’inferno dantesco, come ci suggerisce l’immagine orrorifica di un uomo che sputa la terra, come se fosse già sepolto e la terra gli riempisse la bocca impedendogli di parlare.
Ma per comprendere appieno la poesia dobbiamo concentrarci su quell’espressione dal suono onomatopeico Zvanî, che viene ripetuta di verso in verso; in quella parola c’è il segreto, la chiave per comprendere La voce. Zvanî in dialetto romagnolo è il passato remoto del verbo svanire: dunque “svanì”, si dissolse, ma è anche il diminutivo di Giovanni, letteralmente “Giovannino”. Le voci del passato chiamano il poeta con un linguaggio familiare, con un nomignolo affettuoso che rende questo dialogo con il regno dei morti all’improvviso meno inquietante e colmo di dolcezza, di rimpianto. Tuttavia non è un evento del tutto consolatorio, perché è innaturale: le parole sussurrate dal poeta sembrano tremare nel buio, sprofondare in un presagio di morte. Il mondo reale si svuota e si confonde in un orizzonte sfumato simile alla nebbia di un giorno cupo di novembre.
Nella strofa finale ritorna l’immagine orrorifica del cadavere: non solo la bocca è piena di terra, ma ora anche gli occhi, come se il poeta fosse stato sepolto. Ma infine è la voce che riconduce Pascoli a sé stesso, dunque alla vita, con “la preghiera di vivere e d’essere buono”. Dalle profondità delle tenebre, dinnanzi alla vicinanza spettrale della morte, la voce sembra risalire ed esortare il poeta a continuare a vivere. Forse è questa, dopotutto, la più profonda lezione consegnataci dai morti: “imparare a vivere”. Giovanni Pascoli lo imparò nelle ore oscure e interminabili del carcere, scontando una sorta di morte in vita, venendo a contatto, nel silenzio, con la voce spirituale della propria anima.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La prigionia di Giovanni Pascoli e l’ispirazione per la poesia “La voce”
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Imparare a vivere: credo che Pascoli abbia imparato dalla sofferenza, fin da piccolo, sperimentando già da bimbo quello chepoi apprenderà Ungaretti, nella tragica esperienza della guerra: " la morte si sconta vivendo".