Nel giugno del 1904 una coppia nota passeggia tra le vie di Firenze. Nella folla di turisti e visitatori che già 120 anni fa circolava per la città, non passano inosservati. Colpa degli inconfondibili baffi di Mark Twain, papà di Huckleberry Finn e Tom Sawyer e fortunato autore di capolavori come Il principe e il povero.
Impossibile non riconoscerlo, anche se lui si lamenterà di essere spesso scambiato con Antonino Borzì, presidente della Società britannica italiana.
È alla ricerca di un clima mite per favorire le condizioni di salute della moglie, Olivia Langdon. La Toscana è una scelta quasi obbligata: lo scrittore l’ha visitata durante il suo primo viaggio nel Bel Paese nel 1867 e vi ha soggiornato a lungo tra il 1892 e 1893.
Allora abitava a Settignano, a villa Viviani. Questa volta la coppia sceglie Villa di Quarto, nella zona collinare di Monte Morello, comoda ma abbastanza appartata da garantire riservatezza.
Scopriamo di più sul soggiorno fiorentino di Mark Twain.
“I vagabondaggi fiorentini” di Mark Twain
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Marito e moglie visitano monumenti, passeggiano. La cattedrale, la cappella Brancacci, ponte Vecchio, gli Uffizi, la chiesa di Ognissanti.
Lei è un’appassionata d’arte. Lui pensa alla sua “Autobiografia”. Lo scrittore Enzo Fileno Carabba nei Vagabondaggi fiorentini (proposti in accompagnamento alla mostra Souvenier d’Italie del 2019 e raccontati da Il Corriere Fiorentino) ne ripercorre i passi nei mesi trascorsi lungo l’Arno.
Il risultato è un itinerario valido anche per i contemporanei. E uno sguardo inedito sulla poetica dello scrittore: con Firenze Mark Twain stipula una tregua.
Sembra attenuare l’ironia polemica che è il suo marchio di fabbrica e che in precedenza non ha fatto sconti all’Italia. Lungi dal farsi affascinare dai luoghi comuni che attraggono il visitatore, Twain ne coglie i difetti senza risparmiare critiche. Il tabacco è pessimo, le guide turistiche incomprensibili, l’Arno troppo piccolo per essere definito un fiume, a Napoli i prezzi sono troppo alti. L’intero paese è:
Un grande museo di magnificenza e miseria.
Così scrive ne Gli innocenti all’estero. Il viaggio in Italia dei nuovi pellegrini, riedito nel 2011 da Mattioli 1885 con il titolo In questa Italia che non capisco.
Del resoconto di viaggio negli anni si è fatto un gran parlare e in molti articoli di giornale e saggi si legge una vena di dispiaciuta incredulità di fronte ai toni usati da Twain. Sembra quasi tangibile il rammarico per il mancato apprezzamento da parte di una personalità letteraria così grande.
In realtà i toni burberi sembrano nascondere altro: un affetto divertito e partecipe che si fa più evidente nell’ultima permanenza.
Le lezioni di italiano di Mark Twain
Nel nuovo soggiorno c’è spazio per la gente. Twain impara l’italiano. A modo suo naturalmente. Dorme con una grammatica sotto il cuscino tentando un apprendimento per osmosi. Senza successo. Così cambia metodo. E lo descrive con un tono divertito e divertente nell’articolo L’italiano senza un maestro e ne L’italiano con un maestro. La voce narrante è tutt’altro che scostante.
I miei aiutanti sono tutti nativi; loro mi parlano in italiano, io rispondo in inglese; io non capisco loro, loro non capiscono me, di conseguenza non si fa nessun danno e tutti sono soddisfatti.
Usa i giornali che legge senza dizionario, affidandosi all’intuizione. Spesso con dubbi risultati.
Butto lì una parola italiana, quando ne ho una, e questo ha un buon effetto. Prendo la parola dal giornale della mattina, Devo usarla finchè è fresca, perché noto che le parole italiane non durano in questo clima. Sbiadiscono verso sera e la mattina dopo sono sparite.
Qui interviene il genio umoristico: esistono frasi codificate, del genere che risulta utile nelle lunghe conversazioni come sa bene chiunque abbia a che fare con la difficoltà di farsi comprendere in un paese che non è il suo. Twain le utilizza quando ha bisogno di dare una fiammata nei tratti monotoni.
Una delle migliori è Dov’è il gatto. Quasi sempre provoca una piacevole sorpresa, così la conservo per le occasioni in cui voglio esprimere plauso e ammirazione.
Firenze, l’immagine più bella del pianeta per Twain
Olivia, Livy, muore proprio a Villa di Quarto il 5 giugno. Forse qui sta la radice del sapore dolce-amaro del rapporto dello scrittore con l’Italia.
Twain riparte per non tornare. Ma dedica a Firenze nella sua Autobiografia (dettata a partire dal 1906 dopo una quarantine di false partenze e tentativi falliti, pubblicata a cento anni dalla sua morte. In Italia per Garzanti nell’edizione del 2011) parole d’affetto e nostalgia, mettendo da parte per una volta la vena tagliente della sua oratoria.
Lontano, nella valle, Firenze rosa e grigia e bruna, con l’antica enorme cupola della cattedrale dominante nel mezzo, come un pallone frenato.
Tutto in giro all’orizzonte una frangia di marosi, le alte colline azzurrine cosparse di innumerevoli ville bianche.
Dopo nove mesi di familiarità con questo panorama, io penso ancora, come al principio, che questa è l’immagine più bella del pianeta, la più incantevole a guardarsi. (da “Autobiografia”, 1904)
La vacanza non è una vacanza. È una tregua prima dell’inevitabile, un tempo strappato al destino. Tanto che più tardi Twain dirà:
Firenze per qualche tempo ci rese felici.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Quando Mark Twain imparava l’italiano a Firenze
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