Quanta, quanta guerra...
- Autore: Mercè Rodoreda
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: La Nuova Frontiera
- Anno di pubblicazione: 2016
“El sueno de la razòn engendra monstruos”, una celebre frase di Goya, pone in epigrafe Mercè Rodoreda al romanzo sulla Guerra Civile che viene pubblicato ora da La Nuova Frontiera, editrice degli altri splendidi libri dell’autrice catalana morta nel 1983. Nel titolo, “Quanta, quanta guerra...”, la guerra che costituisce lo spartiacque della storia spagnola ed europea della prima metà del secolo scorso, compare quasi sullo sfondo, anche se il giovanissimo protagonista, il quindicenne Adrià Guinart, la attraversa in tutto il suo portato di morte, violenza, ingiustizia, angoscia, solitudine.
Il ragazzo, figlio di una fioraia che coltiva garofani e di un padre ferroviere, morto dopo essere stato allontanato dal suo posto di conduttore per aver avuto delle probabili allucinazioni, decide di lasciare la casa per un profondo desiderio di libertà e di giustizia, che insegue con determinazione anche se il suo sarà un percorso lungo e accidentato. Adrià era nato con una piccola macchia sulla fronte ed un destino già segnato: la madre lo chiamava Caino, dato il comportamento stravagante del ragazzino: incaricato di badare ad una piccola figlia di vicini, l’aveva quasi uccisa per la curiosità di vedere come fosse fatta, e che reazioni avesse di fronte alle torture che andava praticando sul suo corpicino indifeso. Dopo la morte delle sorelle Adrià prende la sua decisione, quello di raggiungere il fronte per vedere da vicino la guerra. Il libro è organizzato per brevi e brevissimi capitoli, tanti sono gli incontri che il ragazzo farà alla ricerca dell’amore, della famiglia, dell’amicizia, di figure paterne e protettive, di umanità vera. Eva, la ragazza che incontra mentre si bagna nuda in un fiume, diverrà la sua ossessione amorosa, anche se lei, una vera guerriera, non corrisponderà al desiderio di Adrià. Poi ci sono insoliti incontri con persone che gli offrono ospitalità, presso le quali viene ospitato, scaldato, rifocillato, mentre fuori i bombardamenti si susseguono: un vecchio dalla storia stravagante, che si farà accompagnare alla morte dal giovane, che renderà suo erede; finti poveri che nascondono derrate alimentari in eccesso, mentre si muore letteralmente di fame, ferite, aggressioni, abbandoni, addii dolorosi.
Ma ciò che conquista nei romanzi di Mercè Rodoreda è lo stile della scrittura, lirico ed onirico ad un tempo, capace di guardare la natura con puntigliosa precisione, come specchio del comportamento dei personaggi che la sua fantasia sa creare; lo specchio di un armadio, nel quale l’uomo dal temperamento perturbato crede di vedere gli occhi di un ipotetico fantasma, parlano del debito che la scrittrice catalana ha con la grande letteratura europea: penso ad Hoffmann e allo stesso Oscar Wilde. Nel testo abbondano le figure retoriche, che testimoniano un linguaggio ricco di immagini ma fortemente sorvegliato nell’uso, ad esempio, della allitterazione al servizio di una parola chiave, in questo caso “paura”:
“Paura, paura di tutto. Paura di muoversi, di sognare, di ridere. Paura che potessero vedere come era fatta dentro. Paura di un grido, di un rimprovero, dei passi sotto la finestra… paura dei morti che si avvicinano per strapparti all’improvviso le lenzuola. Vedi? Paura di queste onde. Ma con te vicino non ho paura di niente”
I titoli dei capitoli del libro sembrano altrettanti quadri: Una luce rossa, La donna con il canarino, Il paese delle tre acacie, Il ventre bianco di Matilde, La terra rossa, La bambina con il vestito a due colori; ecco, i colori, la giustapposizione di oggetti diversi ma simili per la sfumatura del colore, sono un’altra caratteristica dello stile delle narratrice che incanta e che rende le pagine della sua scrittura così nitide:
“Avrei trovato tutto ciò di cui avevo bisogno e continuai a camminare con gli occhi socchiusi perché un sole rosso come un uovo, più rosso dell’uovo che mi ero bevuto, mi accecava. Fu proprio in quel momento in cui ero distratto dal sole che caddi e mi ferii un ginocchio. Il sangue era rosso, più rosso di un garofano rosso, più della cresta smorta di quelle galline dorate”.
Una scrittura alta, di grande forza comunicativa anche in assenza di una vera trama: qui la storia si limita al percorso di iniziazione di un ragazzo, che, dopo aver visto e sperimentato molto della guerra senza davvero parteciparvi, la vita e la morte soprattutto, decide che potrà tornare a casa, a coltivare i garofani, anche se ormai è un altro, un uomo diverso dal ragazzino che è fuggito, e che ora è ricco dei ricordi accumulati, riassunti nei tanti occhi incontrati sul suo doloroso cammino…
“tanti occhi dolci, tanti occhi tristi, tanti occhi sorpresi, tanti occhi disperati”.
Quanta, quanta guerra...: 1
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