Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma 1822-32
- Autore: Giacomo Leopardi
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: UTET
- Anno di pubblicazione: 2014
“Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de’ gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, in vece d’essere spazi che contengano uomini.”
Così scriveva all’amata sorella Paolina in una lettera datata 3 dicembre 1822 una delle più eminenti personalità della letteratura di tutti i tempi. La mattina del 17 novembre del 1822 il ventiquattrenne Giacomo Leopardi (1798-1837) lasciava per la prima volta Recanati, “il natio borgo selvaggio”, accompagnato dallo zio Don Gerolamo.
“Sappi, Carlo mio, che durante il viaggio ho sofferto il soffribile, come accade a chi viaggia a spese d’altri...”
Dopo aver viaggiato in carrozza per sei giorni, zio e nipote, erano approdati nella città papalina.
“... le dirò che ho trovato in Roma assai maggiore sciocchezza, insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quella ch’io m’aspettassi.”
Nell’Urbe in pieno clima post Restaurazione, “... tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di San Pietro”, il giovane restava deluso non solo dal luogo, ma dai suoi abitanti “le donne romane sono alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia” e dalla “stupidità” dei letterati che non conoscono le lingue, la scienza e la filosofia.
“Secondo loro, il sommo della sapienza umana anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria.”
Ospite dello zio Carlo Antici in una stanza d’angolo al terzo piano di Palazzo Antici-Mattei in via Caetani, impreziosito da uno dei più suggestivi cortili interni della città, decorato da busti, statue e rilievi, Leopardi sarebbe rimasto a Roma fino all’aprile del 1823. Sei mesi nei quali l’inquieto Giacomo avrebbe sperimentato sulla propria pelle il modus vivendi “di queste bestie”, le loro vuote ciarle, “certissimo” che anche il più stolido Recanatese avesse “una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano”.
La collana Extra della Utet, la più antica casa editrice italiana, edita, accompagnato dal saggio di Emanuele Trevi, "Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma 1822-32", un libricino di neanche cento pagine che contiene l’epistolario leopardiano diviso nei due periodi del soggiorno romano del poeta: novembre 1822 - aprile 1823 e ottobre 1831 - marzo 1832 quando Leopardi ritornò in città proveniente da Firenze al seguito dell’amico Antonio Ranieri trasferitosi nell’Urbe per amore di un’attrice. Un testo illuminante, una scrittura diretta ed espressiva, fondamentale per comprendere l’animo tormentato del “giovane favoloso”, il quale ovunque andasse sembrava non trovare né pace né certezze sempre proteso verso quella “libertà e quel varco verso la vita che andava cercando”.
Ai genitori, il conte Monaldo “Carissimo Sig. Padre”, e la marchesa Adelaide Antici “Carissima Signora Madre”, ai fratelli, e agli amici, Giacomo verga lettere che registrano la sua delusione nei confronti di questa città “oziosa”, “dissipata” abitata da gente “insulsa”. Palazzo Antici-Mattei, costruito tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento da Carlo Maderno sulle rovine del Teatro di Balbo, era lo specchio della grande e infinita bellezza di Roma “matrigna” nella quale “interminati spazi” si riflettevano nella vita superficiale che si conduceva nella Città Eterna. Il pater familias Carlo, la Principessa donna Marianna “insopportabile” e la loro numerosa prole lì in quel teatro simbolo e ostentazione di prestigio (il piano nobile dell’edificio era decorato da Domenichino e da Pietro da Cortona), incastonato tra il Campidoglio e la Chiesa del Gesù, passavano il tempo tra litigi, confusione, trascuratezza e superficialità. “Uscire, vedere e tornare a casa” già annoiati e incontentabili. In questo modo il provinciale Giacomino, piccolo di statura, perso dietro molti malanni descriveva gli zii e i cugini così diversi da lui e dalla sua straordinaria sensibilità.
“Coltivano una abituale e naturale freddezza per tutto quello che non ha qualche cosa di strano, anzi di stravagante.”
Com’era lontana la vita a casa Leopardi dove “regna un ordine veramente raro!”, fuggire dai ristretti confini di Recanati, feudo pontificio, non era servito a nulla, il sogno anelato fin dall’adolescenza quando il ragazzino prodigio era chino sui libri della biblioteca di Monaldo, si era spezzato. Una cocente delusione, giacché come ci ricorda Trevi nel saggio finale Stupido, inetto, morto internamente “l’esperienza brucia l’illusione”. Unico momento di sperdimento totale per Giacomo la visita venerdì 15 febbraio 1823 al sepolcro del poeta Torquato Tasso nel complesso chiesa-convento di Sant’Onofrio sulla passeggiata del Gianicolo raccontata al fratello Carlo nella famosa lettera del successivo 20 febbraio.
“Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma.”
Una lettura appassionante, coinvolgente, in attesa di applaudire Il giovane favoloso, biopic che l’eclettico regista Mario Martone ha dedicato al poeta de L’Infinito, che qui avrà il volto di uno degli attori più bravi del nostro cinema: Elio Germano. La pellicola, nelle sale il 16 ottobre prossimo, sarà presentata in anteprima alla 71^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (27 agosto-6 settembre), dove sarà in lizza per il Leone d’oro.
“L’unica maniera di poter vivere in una città grande, e che tutti, presto o tardi, sono obbligati a tenere, è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi dintorno come una piccola città, dentro la grande; rimanendo inutile e indifferente all’individuo tutto il resto della medesima gran città.”
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