Radical Chic
- Autore: Tom Wolfe
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Castelvecchi
Il libro è del 1970 ma si tratta di un cult. “Radical chic” è un apri-pista della saggistica di costume più matura, una lettura irrinunciabile, un caposaldo del new journalism americano. E del resto lo firma Tom Wolfe: quando si dice un nome una leggenda giornalistico-letteraria.
In accesa copertina giallo-blu e formato decisamente maneggevole, la più recente versione italiana di Castelvecchi (traduzione - ottima - di Tiziana Lo Porto) non ha perso un grammo della causticità originale, a partire dal sottotitolo, incisivo e graffiante: “Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”. Che – attualizzando – sarebbe come dire i simpatizzanti tupamaros gironzolanti in Suv, i fidelcastristi con l’attico in centro, gli animalisti con pelliccia di scorta, eccetera eccetera e alzi la mano chi non ne conosce di tipi così. Certo è che il libro - in origine un ampio articolo pubblicato sul New York Magazine - si evolve in contesto, mode, tormentoni vintage/stelle e strisce (vedi il sostegno alla causa rivoluzionaria delle Pantere Nere) ma non è forse vero che tutto il mondo è paese e che i germi delle manie sociali si diffondono nella loro ridicolaggine secondo coordinate universali? Mettete, dunque, una sera a cena a casa del “maestro” Leonard Bernstein, metteteci anche la moglie Felicia, la coorte di (finti) progressisti vip attratti dal fascino dell’esotico-proibito e dal marxismo-leninismo in teoria, e comparateli adesso ai nuovi radical del nostro scontento, ai tic, alle terrazze, ai talk, più di attualità (per una declinazione romana di siffatta progenie ri-consiglio l’ottimo “AristoDem” di Daniela Ranieri): il risultato, se non proprio da fotocopia, si colloca giù di lì.
Un’unica descrizione dal libro, all’inizio di pagina 51:
“Comunque, gli ospiti bianchi e i pochi neri dall’aspetto accademico se ne stavano stipati, seduti o in piedi, nel soggiorno. A quel punto arrivò un manipolo di dodici o tredici Black Panthers. Le Panthers non poterono che mettersi nella sala da pranzo e starsene in piedi – con le loro giacche di pelle, le acconciature afro e gli occhiali da sole – a guardare i bianchi in soggiorno (…) Fu a quel punto che una matrona di Park Avenue formulò per prima quello che era il sentimento diffuso nel Radical Chic: ‘Questi non sono negri da diritti civili dentro completi grigi di tre misure più grandi…Questi sono uomini veri!’”
Capita l’antifona, no? La serata che ispira a Wolfe il neologismo destinato alla storia (radical chic, appunto) e un focus di taglio irresistibilmente “al veleno” per giustificarlo, ha luogo in un attico-simbolo su Park Avenue, ma come nel più canonico degli epidemic-movie di taglio sociale potrebbe essere ovunque, in qualsiasi appartamento di lusso di qualunque metropoli.
Un contesto de-luxe per la descrizione straripante di una fauna sempiterna e trasversale, in grado di coniugare con faccia tosta da very important person l’attrazione per il lusso più sfrenato al brivido della precettistica rivoluzionaria (da salotto). Oggi come ieri, tu chiamale, se vuoi, contraddizioni.
Radical chic: Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto
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