Ragù di capra
- Autore: Gianfrancesco Turano
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2018
Rimasi stupito, in California, nel rivedere i paesaggi deserti della locride e dell’area grecanica reggina. Pensai: “Anche in Calabria potrebbero girare perfettamente i film west”. È la stessa cosa che ha pensato Stefano Airaghi, il protagonista del romanzo di Gianfrancesco Turano Ragù di capra (Città del sole edizioni, 2018), quando sbarca sulla costa jonica locridèa dal suo gommoncino. Un gommoncino utilizzato dopo l’affondamento del suo yacht, provocato ad arte per simulare la propria morte e riscuotere i miliardi (in lire) dell’assicurazione: ricominciare una nuova vita lontano dall’Italia e dagli enormi debiti accumulati era il suo obiettivo. E per un manager e consulente finanziario “lumbàrd” ma con sangue calabrese, appassionato di arti marziali, dal fisico curato, gaudente tra i tanti della bella vita della “Milano da bere” e da sniffare (ma non per lui che nemmeno fuma), non sarebbe stato facile piombare all’improvviso in un mondo diverso, in un mondo da far west in tutti i sensi; un mondo fermo per molti aspetti a qualche decennio precedente, dove ancora la spocchia di giovani e adulti, rigorosamente vestiti di nero, sprizza “malatìa di ‘ndrangheta” da tutti i pori.
Eppure, il suo “confino” in un paese lontano (similmente a Cesare Pavese) al sud del sud d’Europa riesce a renderlo conforme a certe logiche, atteggiamenti, modi di pensare; anche grazie all’organizzazione quasi “da latitante” con tanto di casa appartata, gente fidata di copertura e a supporto, documenti falsi e nuova identità rispettabile in paese (il dott. Damiani… classico nordico fantasmagorico pronto a investire al Sud), costruita dal suo consulente e socio terronico-milanese Santino-Sammy Morabito, vero affiliato ‘ndranghetista, nipote del boss ‘zzi Saro Morabito, consulente e prestanome di boss e famiglie mafiose in affari finanziari, lungo l’asse Ionio-Padania.
Riesce ad adattarsi l’Airaghi in un paio di mesi sotto copertura: addirittura con un gruppetto di fidati ragazzi del luogo con in testa il modello “’ndrìna e pisèlla” (oggi diremmo “stile Gomorra”) si costruisce il suo piccolo clan, forte della sua innata leadership, del suo fascino “estero” e della sua capacità di agire in maniera veloce ed efficace, diremmo “manageriale”, con tanto di azione da provetto combattente karateca durante una classica e “mitica” rissa in discoteca. Il tutto per un “bisinìssi” veloce veloce, arrivato quasi per caso e foriero di entusiasmo ma anche di guai seri: recuperare le casse naufragate in mare qualche tempo prima e piene di armi e materiale nucleare, di proprietà… più o meno ignota, ma certamente di grandissimo valore.
E qui inizia la fantascienza: può mai, chiunque, nella Calabria della fine degli anni ’90, fare qualcosa autonomamente e far muovere foglia senza che la “Santa” non voglia?
No! Nulla e nessuno è ignoto alle ‘ndrìne locali! Nemmeno un milanese in trasferta nella Locride e apparentemente protetto da un mafioso. Tanto più se la sfortuna si accanisce, visto che le armi in questione erano state perse proprio dal clan di Sammy, il quale si trova per l’appunto impegnato a Milano a risolvere proprio “il problema”, stretto tra i suoi sodali del clan Barbaro e i suoi “amici” venditori russi che comunque i loro miliarducci li pretendevano! Qualche lira l’avrebbe intanto chiesta alla mamma di Airaghi, ex-ricca possidente e sconvolta nell’apprendere che il redivivo figlio si era cacciato nell’ennesimo guaio finanziario: avrebbe pagato un piccolo riscatto per quel povero figlio rapito e presuntivamente confinato in una “caverna”. Il resto Sammy l’avrebbe tratto dai soldi dell’assicurazione di cui Airaghi non avrebbe più visto traccia, in cambio di una cosa sola: la vita. E la fortuna dei principianti fu tanta per il milanese: in fondo il novello pseudo-boss aveva recuperato il carico disperso, anche se con altri fini; per cui i veri boss gli risparmiano la vita e lo rispediscono al nord, pronto per nuove avventure e imprese finanziarie, questa volta all’estero. Il lupo perde il pelo ma non il vizio: chissà se si sarebbe adattato, passando dal caldo della Costa dei gelsomini al freddo della Transilvania.
Ragù di capra fa parte del trittico di Gianfrancesco Turano sulla ‘ndrangheta e si colloca intorno al 1999, rispetto agli eventi e alla storia politico-economica e mafiosa della Calabria. La storia si inserisce temporalmente tra Salutiamo, amico, ambientato negli anni ’70 tra i moti di Reggio dei “boia chi molla”, e Contrada Armacà, ambientato nel 2005. Un romanzo in cui, ancora una volta, la descrizione di paesaggi, profumi, sapori caratteristici si fonde con l’analisi introspettiva dei personaggi-abitanti e la visione delle contraddizioni immateriali e materiali, purtroppo ancora oggi esistenti: natura incontaminata pervasa da abusivismo spinto, profumi di bergamotto, di mare e di cibo, schiaffeggiati da olezzi di scarichi fognari e traffico serale, gente “per bene” o “insospettabile” all’apparenza ma collusa nell’intreccio “mafia-politica” nella realtà. Sullo sfondo, l’inizio dell’attività finanziaria e da “colletti bianchi” della ‘ndrangheta che pian piano mette radici nel Nord Italia ricco, nonché l’evidenza degli appoggi di amministratori e istituzioni non sempre cristalline: temi approfonditi e sviscerati, nella loro evoluzione storica e in maniera avvincente, negli altri due libri.
Perché il titolo Ragù di capra? Ce lo siamo chiesti e daremo solo una risposta personale. Citata in qualche occasione anche nel libro, la pietanza caprina, così come “il rito del maiale”, nel reggino è una costante in alcune zone, soprattutto montane. Essa inoltre è anche simbolica, da tanti punti di vista. È una pietanza antica, che racchiude in se storia e tradizioni secolari, in cui si concretizza sia lo stato del symposium ma anche quello del summit: bontà gastronomica (fatevi raccontare cosa sia la “capra a fossa”…) ma anche elemento-alimento di “rispetto” e di conciliazione. E il “rispetto” è un concetto permeante le storie dei libri del “trittico” di Turano. Il “rispetto”, nonostante le diverse visioni e interpretazioni, è una componente fondante di quella cultura magnogreca che continua a esistere al Sud e che oggi, nel bene e nel male, nell’accezione positiva e in quella negativa, pervade questa umanità dell’estremo lembo d’Italia.
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