Riflessioni sulla morte di Mishima
- Autore: Henry Miller
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Feltrinelli
- Anno di pubblicazione: 2016
Gli opposti si attraggono? Capita anche tra gli scrittori, ed è successo allo scandaloso e anticonformista romanziere newyorkese Henry Miller (1891-1980) nei riguardi del giapponese Yukio Mishima (1925-1970): non pornografo ma crudele, non democratico ma elitario, non pacifista ma bellicoso, non ilare ma ossessivo.
Miller giustificava questa sua attrazione intellettuale per Mishima con un interesse più generico verso la letteratura, l’arte e il cinema nipponico e con uno, più particolare, per la scrittura, per il fanatismo e soprattutto per la morte spettacolare e morbosa di quell’autore.
Nei giapponesi “l’elemento estetico e quello emozionale sono sempre strettamente intrecciati” e Miller si confessava attratto dall’aura di mistero e impenetrabilità che circonda gli orientali “sia a livello di popolo sia di individui”.
Mishima era senz’altro un individuo particolarissimo.
Ossessionato dalla bellezza, nei corpi e nell’arte, voleva fare della sua esistenza un capolavoro estetico, fisicamente e moralmente, al punto da decapitarsi platealmente, a quarantacinque anni, tramite il “seppuku”, il suicidio rituale dell’antica tradizione dei samurai: rifiutando così sia il suo inevitabile invecchiamento fisico, sia l’annacquamento senile della sua narrativa, sia soprattutto l’involgarimento della civiltà nipponica e la sua corruzione sul modello del capitalismo occidentale.
Era un fanatico, Mishima? Forse. Ma soprattutto era assillato dal proposito di far rivivere nel suo paese i nobili costumi degli avi:
“Egli voleva ristabilire la dignità, il rispetto e la fiducia in se stessi, l’autentico cameratismo, l’amore per la natura e non l’efficienza, l’amore di patria e non lo sciovinismo, l’imperatore quale simbolo della capacità di comando in opposizione a un gregge senza volto e senza anima obbediente a ideologie mutevoli, i cui valori sono stabiliti dai teorici della politica”
Per questo perseguì con cieca tenacia l’idea di costituire un piccolo esercito privato, elegante nelle uniformi e ferocemente deciso a opporsi al degrado dell’ordine costituito. Narcisista, individualista, stoico, eccessivo in tutto, Mishima era privo di qualsiasi senso dell’umorismo, non sapeva ridere né sorridere, credeva solo nell’eternità dello spirito, nel dovere di rispettare i princìpi senza alcuna concessione alla leggerezza, al profitto materiale, al divertimento.
E in questo Henry Miller prendeva le distanze dallo scrittore eroico e invasato. Pur essendo consapevole che la sua amata America, democratica e libera nei costumi, sarebbe stata destinata al declino morale, al caos, alla perdita di ogni valore, invocava il diritto alla vita, alla pace, alla tolleranza verso gli altri. Convinto che non si potesse cambiare il mondo, riteneva più saggio comprenderlo anche nelle sue manchevolezze, provando compassione anche per il nemico.
“Tornare all’umanità. Alla comune umanità… Mettersi carponi a insegnare l’alfabeto alle formiche – se ci si riesce”.
Tutto sommato, di Mishima non ricordiamo l’ideologia militare e il manipolo di esaltati samurai, spariti nel nulla dopo la sua morte. Ricordiamo invece l’eleganza della sua scrittura, l’invocazione continua al perfezionamento di sé, l’esaltazione della bellezza. E ci aiuta a farlo questo saggio di Miller, “Riflessioni sulla morte di Mishima”.
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