A Roberto Bolaño dobbiamo l’aver trasformato la letteratura in un gioco: un divertissement senza fine che stuzzica il lettore e infine lo ingloba al suo interno creando un mondo nel mondo come delle scatole cinesi.
Pensiamo a 2666, il suo penultimo romanzo pubblicato postumo, che in verità ci propone cinque libri - tra loro connessi - da leggere in ordine casuale. In queste pagine le fantasie oniriche tipiche dell’autore si trasformano in un naufragio, che conduce alla deriva e allo stesso tempo salva, poiché sembra portarci a casa in un continuo moto di avvicinamento e allontanamento; il titolo richiama infatti il “666” dell’Apocalisse biblica, ribadendo che il mondo è in balia del male e di forze oscure.
Nella narrativa di Bolaño tuttavia i mostri non fanno paura, presentano sempre un voltafaccia anche comico, persino quando si tratta di inquietanti scrittori filonazisti in verità mai esistiti davvero. C’è sempre qualcosa di sfuggente insito nel narrare di Roberto Bolaño che ci conduce continuamente a dubitare del vero perché spesso quel “qualcosa di imprendibile” è proprio la realtà.
Roberto Bolaño: la vita
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Roberto Bolaño era nato a Santiago del Cile il 28 aprile del 1953, figlio di un ex pugile dilettante, León, e di un’insegnante di matematica. Giovanissimo si trasferì con la famiglia a Città del Messico. Non fu quello che si può definire un “bambino prodigio”, anzi, ebbe un’infanzia discontinua e assoluta, selvatica ed errante come tutte le infanzie. Bolaño interruppe gli studi a diciassette anni e svolse per tutta la vita i lavori più disparati: dal guardiano notturno al cameriere, dal lavapiatti al vendemmiatore. Nella sua vita però c’era un’unica passione: la letteratura. La fiamma si era accesa quand’era un bambino incuriosito dai libri: la madre leggeva romanzi d’amore che si faceva spedire via posta e riviste esoteriche, mentre il padre storie di cowboy. Roberto Bolaño entrò quindi subito in contatto con quel potere occulto e trascinante della letteratura che poi avrebbe preso corpo nelle sue stesse storie. Stava ore chiuso in biblioteca, non studiava ma leggeva molto. Da ragazzo avrebbe guadagnato qualche spiccio scrivendo per alcuni giornali locali; ma quel lavoro “letterario”, a differenza di quelli veri, non gli permetteva di guadagnarsi realmente da vivere e lui aveva bisogno - anzi necessità, perché si parla di un bisogno più urgente, imprescindibile - di mantenersi.
Avrebbe dunque praticato i lavori più disparati accanto a quello - invisibile eppure presente - di scrittore. Perché Bolaño scriveva ogni giorno, un vero e proprio diluvio di parole. Stava chiuso in casa con le sue sigarette e una tazza dell’immancabile camomilla con miele e buttava giù pagine fitte di parole.
Come scrittore riusciva a mantenersi solo con i premi letterari comunali, che almeno gli garantivano qualche entrata. Scrisse il suo primo romanzo ufficiale, lo sperimentale Anversa, un intreccio di episodi di stampo poliziesco, che tuttavia avrebbe visto la pubblicazione solo molti anni più tardi dopo molte altre opere.
Le sue idee politiche di sinistra lo ricondussero in Cile, nel 1973, ma in seguito al colpo di Stato di Pinochet fu incarcerato per una settimana. Al rilascio lasciò definitivamente il suo paese natale alla volta della Spagna.
Roberto Bolaño: le opere e il successo tardivo
Dopo alcune raccolte di racconti, pubblicò il primo romanzo nel 1993, il noir La pista di ghiaccio, ma non ottenne grande attenzione di critica. Fu definito un “libro cubista”, a causa dell’intrecciarsi di diversi punti di vista e prospettive. Il successo nella vita di Bolaño arrivò tardi, incalzato dallo spettro della malattia. Stava inaugurando una nuova forma di narrativa realista, detta Infrarealista, in cui a dominare era la forza introspettiva e la tematica del viaggio declinato in senso interiore.
Fu quando i medici gli diagnosticarono una grave malattia al fegato, incurabile, che decise di dedicarsi completamente alla letteratura. Era andato a vivere con la moglie Carolina Lopéz nella cittadina costiera di Blanes, in Spagna, vicino a Barcellona; in quel luogo sul mare crebbe i suoi figli, Lautaro e Alexandria, che nel suo ultimo libro, Sepolcri di Cowboy, avrebbe definito “la mia unica patria”.
Il romanzo che lo consacrò in vita fu I detective selvaggi , che vinse il prestigioso premio Herralde, l’equivalente di un Nobel nella letteratura latinoamericana, rendendolo noto a livello internazionale. Era un romanzo di formazione che si intersecava a vari generi, tra cui il giallo: Bolaño disse che in quel libro erano presenti tante voci quanto erano le letture possibili della storia. Un romanzo labirinto, allucinato e intrigante, nel quale era piacevole perdersi.
A quel punto si iniziava a parlare di lui come di una “nuova voce”, dopo anni di scrittura silenziosa il suo nome stava lentamente emergendo; ma non era che la punta di un iceberg.
La Bolaño-mania
Morì il 14 luglio 2003, a cinquant’anni, in attesa del trapianto di fegato che avrebbe dovuto salvargli la vita. Lasciò nel cassetto la sua opera più importante, il capolavoro 2666, che avrebbe rivelato la genialità di colui che oggi il mondo intero conosce come scrittore: Roberto Bolaño. Continuò a ricevere premi post mortem, tra cui il National Book Critics Circle negli Stati Uniti mai assegnato a uno scrittore non di lingua inglese; come una strana beffa del destino sarebbe esplosa quella che l’Economist definì come Bolaño-mania.
Lui non avrebbe mai visto il successo di quel libro; noi, per fortuna, abbiamo la possibilità di leggerlo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Roberto Bolaño: la vita post mortem dello scrittore selvaggio
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