“Romagna” è una delle poesie giovanili più celebri di Giovanni Pascoli e fa parte della altrettanto famosa raccolta Myricae (1891). Una dichiarazione d’amore alla terra natia, dove ancora una volta trova spazio il tema ricorrente del nido vuoto e dell’infanzia rubata. Dedicata a Severino Ferrari, amico e allievo di Giosuè Carducci proprio come lo fu Pascoli, la poesia Romagna, attraverso immagini fortemente evocative e la malinconia che la pervade, ricalca lo schema della carducciana Davanti San Guido, alla quale tuttavia aggiunge note personali e profondamente intime.
Su tutte la tematica del nido abbandonato e della fanciullezza funestata dai dolorosi lutti, ossessivamente ricorrente nella poesia pascoliana.
Romagna è una dichiarazione d’amore alla terra natale.
Scopriamone testo, parafrasi e analizziamone gli aspetti principali.
“Romagna” di Giovanni Pascoli: testo
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie;mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache stalle
la sua laboriosa lupinella.Da’ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;udia tra i fieni allora allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.E lunghi, e interminati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,
risa di donne, strepito di mare.Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.Così più non verrò per la calura
tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
“Romagna” di Giovanni Pascoli: parafrasi
Sempre un villaggio (San Mauro di Romagna, dove il poeta nacque il 31 Dicembre 1855),
sempre una campagna (la tenuta di
cui era amministratore il padre del poeta)
mi ritorna al cuore come un ricordo, e suscita in me
sentimenti, da una parte lieti, dall’altra dolorosi,
o Severino (l’amico poeta Severino Ferrari);
il paese dove, ovunque andando, mentre si cammina,
o si sta in viaggio, ci accompagna sempre
il monte Titano su cui sorge la repubblica
di San Marino con il suo cielo azzurro:
sempre mi torna alla mente il mio caro paese,
di cui furono signori, in epoca feudale,
i conti Guidi, signori di Ravenna, e i Malatesta,
signori di Rimini e di Cesena (nobili e potenti famiglie romagnole),
su cui dominò anche il Passator cortese (un famoso brigante generoso),
padrone incontrastato con la sua banda
sia delle strade sia delle foreste della Romagna.
Là nei campi ricoperti di stoppie (steli ormai secchi),
si aggira la tacchina col suo verso che somiglia a un singhiozzo,
e va girando con i pulcini usciti dalle uova delle galline ,
presso gli stagni ricchi e scintillanti di colori,
quando con lentezza l’anatra, dalle piume variopinte,
si muove sollevando spruzzi;
Oh! magari io fossi con te ; potessimo perderci nel verde delle piante,
e stando tra gli olmi, dove le ghiandaie (tipologia di uccelli ) fanno il nido,
potessimo scambiarci per gioco urli che sembrano perdersi lontani
nell’infuocato silenzio dei pomeriggi estivi che vanno per le aie;
Mentre il contadino,
le cui spalle sono incurvate dalla fatica, pone la roncola
(strumento per potare) e afferra la scodella per mangiare,
e il bue nelle stalle ombrose rumina
la sua erba lupina (da foraggio)
che mastica a lungo e digerisce con lentezza.
Durante tutto questo, dai paesi che si trovano nei dintorni
le campane sembrano rincorrersi nel cielo con i loro acuti gridi:
invitano al riposo, al fresco dell’ombra,
alla mensa resa sacra dal lavoro e dagli affetti familiari,
adornata dagli occhi splendenti come fiori dei bambini.
Una volta in quelle ore assolate, una mimosa,
per farmi riposare, mi ospitava, al riparo
dei suoi rami con foglie delicate e fini,
che nei giorni caldi dell’estate fioriva
e adornava la mia casa con fiori simili a pennacchi rosati;
E lungo il muro rovinato un gelsomino si arrampicava insieme
ai rami di un rosaio;
guardava e sovrastava tutt’attorno un pioppo alto e snello,
che in certi giorni era chiassoso e irrequieto come un birichino,
perché al vento lasciava che le foglie frusciassero con forza.
Quell’angolo tranquillo era il mio nido, ossia il mio rifugio;
dove fisicamente immobile e solo con la fantasia,
per ore ed ore io galoppavo insieme a Guidon Selvaggio
e con Astolfo dell’Ariosto; o vedevo davanti a me,
l’imperatore Napoleone nel suo esilio sull’isola di Sant’Elena .
E mentre, stando sospeso in aria
sull’Ippogrifo (il mostro alato di Astolfo) mi
dirigevo verso la tanto agognata luna,
o mentre nella mia stanza silenziosa
Napoleone dettava le sue memorie;
Udivo tra i fieni appena falciati
il verso tremolante e continuo dei grilli,
udivo dalle rane dei fossi,
un canto interminabile.
E simili ai canti della natura, lunghi e ininterrotti,
erano i canti che io pensai e sognai di comporre:
dallo stormire delle foglie, al cinguettio degli uccelli,
dalle risa delle donne , alle onde rumorose del mare.
Ma dalla casa materna (il nido) rifugio di tutta la famiglia,
come rondini partite in ritardo,
tutti, proprio tutti, partimmo un triste e funesto
giorno (quando uccisero il padre Ruggero);
quanto a me, ora non ho più un paese, sto dove mi capita,
dove è possibile vivere con il mio lavoro;
gli altri miei familiari sono poco lontani da me,
sempre presenti nei miei ricordi, al cimitero.
Così io non verrò nei giorni della quiete estiva
per quei sentieri fiancheggiati dai biancospini sporchi di polvere,
per non dover provare il dolore di trovare nella mia casa
i figli di gente estranea che adesso la abitano,
o Romagna piena di sole, dolce paese,
su cui tennero la signoria i conti Guidi e i Malatesta,
su cui dominò anche il Passator cortese,
padrone sia delle tue strade sia delle tue foreste.
“Romagna” di Giovanni Pascoli: stile, linguaggio e metrica
Romagna è una poesia in quartine di endecasillabi a rima alternata (ABAB, CDCD ecc.).
Dal punto di vista linguistico, la lirica si inserisce nel solco della tradizione ma con alcuni significativi elementi di novità.
Accanto ai latinismi e a pregevoli espressioni arcaiche (ad esempio teco e fioria) infatti, si delinea netta e chiara la dimensione soggettiva del paesaggio, che Pascoli restituisce al lettore nei suoi aspetti apparentemente più idillici, rendendolo quasi animato attraverso la descrizione di suoni, immagini e rumori (ad esempio l’anatra iridata e gli stagni lustreggianti).
A dispetto della precisione e, a volte, dei tecnicismi utilizzati nel lessico tuttavia (ad esempio roncola, un attrezzo agricolo), più delle cose in sé, a contare è principalmente l’impressione che esse suscitano nello sguardo, nella mente e nel cuore del poeta, che personalizza la natura con elementi psicologici che afferiscono a quello che, al momento, è il suo stato d’animo.
Tutto rimanda all’autore stesso, alla sua esperienza di vita passata e a quella presente.
Il componimento è pervaso da un accentuato simbolismo, una delle caratteristiche peculiari della poetica pascoliana.
È d’obbligo poi sottolineare un ulteriore aspetto di Romagna dal punto di vista linguistico, ovvero gli evidenti echi carducciani, presenti anche nella struttura, simile a Davanti San Guido.
La memoria, innanzitutto l’eco dell’infanzia felice prima che la famiglia venisse falcidiata dai lutti, è anche qui la vera protagonista, e basta ad instillare nell’animo dell’autore quell’onnipresente ed immarcescibile velo di malinconia per un tempo ed una stagione della vita che non possono tornare, così come i cari ormai perduti.
Del resto Romagna è una poesia giovanile di Pascoli e pertanto l’influsso del maestro Carducci, che per l’allievo prediletto mostrò sempre uh affetto paterno, è molto evidente.
“Romagna” di Pascoli: tematiche principali
Rivolgendosi all’amico poeta Severino Ferrari, in Romagna Pascoli ricorda con affetto e nostalgia San Mauro, dove è nato e cresciuto. La distanza dal borgo natio, dovuta principalmente a motivi lavorativi, non ha cancellato l’attaccamento che l’artista nutre nei suoi riguardi e, anzi, ne ha reso la memoria ancora più dolce e struggente.
In quella campagna assolata, amena, vivace e chiassosa, animata da persone e animali, dice, ha trascorso i primi anni della sua vita, quelli più belli, al sicuro fra le ali protettive della famiglia e della casa in cui, gioiosamente, abitava con i propri cari.
C’è sempre, in Pascoli, un "prima" e un "dopo" e Romagna non fa eccezione.
Per quanto lo si possa considerare uno dei suoi componimenti più sereni, anche qui torna il tema ricorrente e quasi ossessivo del nido spezzato, dell’iniziale felicità spazzata via dai lutti continui e mai superati.
Come è noto, il 10 Agosto 1867 Ruggero Pascoli, padre del poeta, a causa di un tragico scambio di persona, venne ucciso in un agguato mentre tornava da Cesena in sella alla sua cavalla.
Un trauma insopportabile per un ragazzino di 11 anni costretto, fra l’altro, di lì a poco, a dover dire addio anzitempo anche alla madre, alla sorella Margherita e al fratello Giacomo, dopo aver già perso le piccole Ida e Carolina, morte in tenerissima età.
Dolori cocenti, che ne minano per sempre l’animo sensibile, lo rendono insicuro e lo portano a chiudersi in sé spingendolo a rifiutare di aprirsi al resto del mondo e alla vita stessa.
Nel rievocare il momento in cui fu costretto ad abbandonare la dimora materna, Pascoli ricorre ancora una volta alla similitudine del nido e delle rondini, una costante nella sua poetica, la più idonea a rendere il senso dell’abbandono e la sconsolata desolazione che ne derivò.
Anche adesso che è adulto, afferma, gli sarebbe intollerabile tornare a San Mauro e vedere la sua vecchia casa dai muri scrostati ricoperti di rose e gelsomini rampicanti, abitata da estranei.
In un presente poco gratificante e carico di sofferenze mai sopite , la memoria appare come l’unica consolazione possibile.
Non solo per il fatto che attraverso di essa si possono rivivere gioie ormai perdute, ma anche e soprattutto perché, in riferimento alle persone, mantenerla viva fa sì che chi ci ha lasciato rimanga al nostro fianco se non fisicamente, almeno nella testa e nel cuore.
Gli altri miei familiari sono poco lontani da me, sempre presenti nei miei ricordi, al cimitero.
È il verso che esprime al meglio la visione pascoliana secondo la quale fra i vivi e i morti permane una forma di comunicazione che non si interrompe mai.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Romagna”: testo, parafrasi e analisi della poesia di Pascoli
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